Chernobyl trent’anni dopo: l’aiuto concreto di Monza e Ti do una mano

Il 26 aprile 1986 nella centrale nucleare di Chernobyl un reattore esplode e fuoriescono 5 tonnellate di materiale radioattivo: un disastro che colpisce anche l’Europa occidentale. Dal 2004 tante famiglie monzesi ogni anno “danno una mano” ospitando i ragazzi in Brianza. Ma Ti do una mano Onlus non è solo questo: «Siete mai stati in quei luoghi? Il tempo si è fermato».
I bambini di Chernobyl e Ti do una mano Onlus di Monza
I bambini di Chernobyl e Ti do una mano Onlus di Monza Redazione online

Sasha, Anastasia, Nataliya e tutti gli altri non c’erano neppure. Sono nati dieci, quindici, vent’anni dopo. Lele, Anna, Ernesto e tutti gli altri c’erano, eccome. Loro, con una vita che scorreva a Monza, a più di 2mila chilometri dal punto di non ritorno, se la ricordano bene quella strana primavera del 1986. Niente insalata dell’orto, vietata; scorte di acqua in bottiglia, tanto per essere sicuri; e mille voci, mille paure sconosciute.
Tanto più che Seveso, solo dieci anni prima, assai meno distante di Pripyat, aveva tolto ugualmente fiato e sicurezze. Monza-Chernobyl (dove per Chernobyl s’intende un’area vastissima tra Ucraina, Bielorussia e Russia) e Chernobyl-Monza è una tratta che in questi 30 anni è stata percorsa, avanti e indietro, infinite volte.

Sasha, Anastasia, Nataliya e tutti gli altri, quelli che non c’erano, dal loro primo giorno di vita pagano dazio all’una e 26 minuti della notte del 26 aprile 1986, quando nella centrale nucleare il reattore numero quattro esplose: fuoriuscirono cinque tonnellate di materiale radioattivo.

È così che la vita di Lele e dei suoi amici monzesi si è incrociata con quella di Sasha e degli altri, quando nel 2004 la neonata associazione Ti do una mano ha scelto di portare avanti, tra altre iniziative per i bambini meno fortunati, anche i percorsi di soggiorno terapeutico per bambini e ragazzi ucraini.

Per i troppi, Anastasia, Sasha e Nataliya, che non smetteranno mai di pagare con la loro salute quella primavera del 1986, un viaggio due volte all’anno in Brianza è una vera terapia, lontano da una contaminazione che, chiariscono ricerche e indagini odierne, in quei luoghi è ancora oggi presente, ovunque.

Chernigov è la Chernobyl dei volontari monzesi. Da lì provengono bambini e ragazzi accolti nelle famiglie, a Natale e in estate. O meglio, Chernigov è il centro più grande. Poi la maggior parte dei ragazzi arriva da villaggi sperduti e poverissimi del nord Ucraina. Da lì, anno dopo anno, sono arrivati a Monza bambini che con la loro vacanza qui, in famiglie disposte ad accoglierli, guadagnano davvero in salute. Qualcuno, purtroppo, non è più ritornato. Non ce l’ha fatta e la malattia se lo è portato via prima di poter prendere parte ad un altro soggiorno.

Le condizioni sanitarie dei bambini ucraini restano sempre il primo impegno dei volontari. Non solo nei soggiorni terapeutici italiani, ma anche quando i ragazzi tornano a casa. Con questa preoccupazione anche gli aiuti sul posto si moltiplicano, all’ospedale di Novgorod, all’asilo di Vertyijievka, alla scuola professionale di Chernigov.

«Mi sento spesso dire “ma ancora con questi bambini di Chernobyl?” Come se il disastro fosse oggi quasi un fastidio e non vi fosse affatto la consapevolezza delle conseguenze più che attuali della contaminazione – rimarca Lele Duse, presidente di “Ti do una mano” – A queste persone chiedo: ma ci siete mai andati in quei luoghi? Noi sì, e abbiamo ben chiara la situazione drammatica, dove l’abbandono di molti spazi, i problemi di salute, si uniscono alla povertà estrema e oggi anche alla guerra».

Luoghi dove si può stare anche mesi con tibia e perone rotti senza avere la possibilità di pagarsi una radiografia per accertarlo. È una delle tante ricadute del disastro del 1986. Le condizioni dell’Ucraina di oggi sono infatti una pesante mescolanza dell’effetto Chernobyl. L’arretratezza delle zone rurali ha avuto nel disastro la sua massima amplificazione. Per questo gli aiuti dell’associazione si sono diversificati: con le famiglie che accolgono, ci sono anche le adozioni a distanza, le borse di studio, l’invio continuo di generi alimentari e sanitari.

«C’è una disinformazione di base su quanto accade oggi in quelle zone – spiega ancora Duse – dove il tempo sembra essersi fermato a 30 anni fa, ma dove invece è necessario andare a 300 allora, per cercare di non lasciare indietro i nostri bambini, i nostri ragazzi». Anche oggi che la guerra rende tutto ancor più complicato.

Più difficili, ad esempio, le procedure per ottenere i permessi dei soggiorni terapeutici. Ma i ragazzi arriveranno in estate e la macchina organizzativa dei volontari sta marciando a pieno ritmo. Con la consapevolezza che è necessario parlare ancora di quanto accadde 30 anni fa, di quel disastro nucleare che avvolse con la sua nube ogni angolo del mondo. Che mise tutti di fronte a un dramma enorme che oggi appare, erroneamente, così lontano.