25 aprile: la storia del soldato monzese che disse no ai nazisti e divenne schiavo della Germania

La storia del soldato che disse no ai nazisti e divenne schiavo della Germania: il monzese Nino Franzosi, scampato ai campi di lavoro tedeschi, l’ha scritta in un diario.
Monza, una foto di Nino Franzosi sorridente
Monza, una foto di Nino Franzosi sorridente

Quella del 17 ottobre 1942 a Poloj, in Croazia, è stata l’ultima carica della cavalleria italiana: a compierla il 14esimo reggimento Cavalleggeri di Alessandria del Regio esercito italiano. Tra i soldati bisogna immaginare anche Nino Franzosi: monzese, classe 1920, abitava in via Brembo, a San Fruttuoso, e la sua è una storia di resistenza, e di liberazione, salvata dalla polvere della storia grazie all’interessamento di un altro monzese, Vittorio Rossin, che ne ha recuperato i diari e li ha donati al museo della Voloire, le leggendarie batterie a cavallo del regio esercito.


LEGGI Il 25 aprile 1945 a Monza: l’insurrezione con le SS dietro casa (di Giancarlo Nava)

Prima di finire in Germania, deportato in campi di concentramento e di lavoro, Franzosi era di stanza in Croazia: nel 1941, d’accordo con la Germania, il Regno d’Italia aveva ingrandito la provincia di Zara, annettendo anche parte della Slovenia e della Dalmazia. Il regio esercito era impegnato in operazioni di presidio e di controguerriglia: i partigiani di Tito, schierati nell’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia, davano del filo da torcere alle potenze occupanti dell’Asse.

Bisogna immaginarlo a Poloj, allora, Nino Franzosi, impegnato in una carica – l’ultima, realizzata dalle truppe militari regolari – che ha regalato al 14esimo Cavalleggeri un’importante vittoria tattica e strategica. Poi, la polvere della storia si deposita sulle sue giornate: si arriva in fretta all’8 settembre del 1943, ai giorni dell’armistizio. Alla scelta che i soldati italiani dovevano affrontare: o continuare a combattere per l’esercito tedesco, oppure essere inviati ai campi di detenzione in Germania.

La sua storia ricomincia da lì: dalle pagine di un diario che ha scritto durante la prigionia. Le tappe del viaggio si ricostruiscono dalla cartina che ha tracciato a penna su una delle pagine ingiallite dal tempo e stropicciate dalle traversie: come tanti altri nelle sue stesse condizioni, non voleva più la guerra, Franzosi. E allora viene caricato su un treno: il viaggio è lungo e tra le pieghe della carta si individuano i 25 giorni necessari a raggiungere, dall’Austria, Wienzerdorf, in Pomerania, come scrive. Seguono 40 giorni d’attesa e altri quattro di viaggio, prima di arrivare a Flensburg, «a due chilometri dalla Danimarca»: lo precisa prima di iniziare il suo racconto.

«Ci fecero scendere dieci chilometri prima e poi ci fecero fare la strada a piedi, fino in città. Era inverno (l’inverno del 1944, nda) e dappertutto vi era neve e gelo. Noi sessanta stanchi ed affamati arrivammo a stento in una vecchia fabbrica di pesce in scatola».
Dagli abitanti del luogo venivano considerati dei traditori: traditori come lo era stato Pietro Badoglio, che a Cassibile il 3 settembre aveva firmato l’armistizio con gli anglo-americani. «Tutta la gente che incontravamo ci guardava in cagnesco. Noi non avevamo però nessuna colpa: ma come far comprendere a quella gente il nostro disagio e le nostre sofferenze?».

Non potevano farlo: a Franzosi e a tanti altri non restava che adattarsi alla nuova realtà, di prigionia, fatta di freddo e di stenti, impegnati come manodopera nell’agricoltura e nell’industria per sostenere lo sforzo bellico tedesco. Franzosi, elettricista, fu spedito a lavorare nelle officine della Bosch.

«Lui, e tanti altri internati militari italiani – ha concluso Rossin – non hanno ceduto: né alle torture, né al freddo, né alla fame. Gli sforzi di Franzosi sono stati premiati: nella primavera del 1945 è stato liberato dagli alleati. Ed è tornato a Monza, dove ha vissuto fino agli anni Settanta».