Monza – Lei sta lì, piantata con dei tacchi innaturali nel prato e sullo sfondo l’erba rasata di un campo da golf, la fuga infinita di un’alba nel verde immaginato del bianco e nero. Ha un abito che sembra una sottoveste, contrasta con l’alba pallida. E le mani appena appoggiate davanti, un’attesa. Lo sguardo è attratto da altro e la bocca, la bocca, ha una curva che solo le labbra francesi possono avere. Jeanne Moreau in mezzo alle linea rarefatta del golf del parco di Monza.
Il film che stava interpretando era “La Notte”, di Michelangelo Antonioni, girato nel 1960, un anno prima che la pellicola arrivasse nelle sale, gli altri attori da locandina Marcello Mastroianni e Monica Vitti. Il secondo capitolo della trilogia dell’incomunicabilità – dei sentimenti, dicono alcuni critici, dell’impossibilità dei sentimenti, sintetizzano altri. Che parte da “L’avventura” del 1960 e finisce con “L’eclisse” del 1962 per raccontare un’Italia che cambiava, sullo sfondo, e una condizione esistenziale fatta di fragilità in primo piano. Sono stati tre capolavori che hanno contribuito a fare di Antonioni uno dei maestri del cinema italiano – “La notte” è stato scritto con Tonino Guerra e con Ennio Flaiano – e il cinema italiano un architrave della storia della settimana arte.
È Ferrara in questi giorni a celebrare il regista, dedicandogli una mostra e un’ampia retrospettiva che intrecciano il suo lavoro e le analogie con l’arte figurativa che hanno caratterizzato la sua poetica dell’immagine, aperta fino a giugno al palazzo dei diamanti. Quel capolavoro ha incrociato per qualche giorno il suo destino con Monza, prima di arrivare a Berlino e vincere l’Orso d’oro e tornare in Italia per fare man bassa di David di Donatello e Nastri d’argento. E’ un film duro, che aiuta a definire le scelte stilistiche di Antonioni e girato con dei tour de force soprattutto notturni tra Milano e Monza, mettendo alle corde la stessa resistenza degli attori. Quello sguardo tirato di Jeanne Moreau nel parco cittadino non è un esercizio attoriale. Antonioni l’aveva conosciuta durante le riprese di “I vinti”, dieci anni prima, e aveva deciso di lavorare con lei.
«In un piccolo ristorante dalle parti di Les Halles mi raggiunge Jeanne Moreau -aveva scritto nel 1951, mentre dirigeva il film -. Ho notato la sua fotografia tra tante altre e ho voluto vederla. Una giovane attrice di teatro, cinema ancora niente. Ma non è abbastanza giovane per il ruolo dell’episodio francese de “I vinti”. Peccato. Carica di sensualità dalla testa ai piedi, la sua faccia ha un’espressione persino un po’ depravata. Lei lo sa e sta lì zitta, lasciando che sia il viso a parlare. A guardarla bene, più che di sensualità , è di volontà che è carica dalla testa ai piedi».
Forse per questo sarebbe diventata Lidia in “La notte”: soltanto quella totale sensualità avrebbe garantito il paradosso di un uomo (Mastroianni) e una donna (lei) così giovani e già incapaci di amarsi. Nel 1960 Antonioni la chiamò e i tempi, i ritmi delle riprese, il coinvolgimento emotivo totale di “La notte” condizionarono tanto l’attrice che poi, disse lei stessa, non volle mai vedere la pellicola. A quell’epoca era già passata da “Ascensore per il patibolo” di Louis Malle (con l’indimenticabile colonna sonora di Miles Davis), da François Truffaut dei “Quattrocento colpi” e sarebbero passati altri due anni prima che diventasse l’icona di “Jules et Jim”. Mastroianni aveva appena interpretato “La dolce vita” e “Il bell’Antonio”.
Monica Vitti, trentenne, aveva già fatto “L’avventura” e avrebbe fatto un anno dopo “L’eclisse”. «Se stasera ho voglia di morire è perché non ti amo più» dice Lidia- Moreau a Giovanni- Mastroianni nelle ultime scene del film, davanti alla sabbia di un golf dove è la carne a cercare di negare la fine di un amore. E l’alba livida del parco di Monza è l’ultima protagonista in dissolvenza di quel fallimento emotivo.
Massimiliano Rossin