Nelle spirali di Roberto CrippaQuarant’anni fa la sua scomparsa

Quarant'anni fa la scomparsa di Roberto Crippa, l'ultimo artista di Monza ad avere avuto un ruolo internazionale. Dalla Brera bohèmienne del bar Giamaica al manifesto dello Spazialismo, poi Pollock, Baj, i totem e i sugheri. Compresa Marilyn Monroe. Fino all'ultima, maledetta spirale del 1972.
Nelle spirali di Roberto CrippaQuarant’anni fa la sua scomparsa

Monza – Eccolo lì, nel 1952. Non sembra diverso da pochi anni prima, quando studiava qualche centinaio di passi più in là, a Brera, in accademia. Ora come allora la voglia di berci su: una bottiglia da stappare con un movimento a spirale che gli aveva già dato fama poco più che trentenne. I capelli impomatati, una sigaretta di traverso tra le labbra appesa a non si sa cosa, forse il senso dell’incoscienza, quel naso da pugile che lo rendeva riconoscibile tra tutti. Anche lì, al bar Giamaica, il cuore di una Brera che fu, quel porto franco bohèmien che è durato una manciata di anni.

Eccolo lì, si diceva. Nel 1952. Era già un altro. Qualche giro di calendario prima aveva firmato con Lucio Fontana il terzo manifesto dello spazialismo e intanto era riuscito ad andare al di là dell’oceano, negli Stati uniti. Dove aveva incontrato Pollock, i surrealisti transfughi di Parigi, persino Marilyn Monroe. Aveva già esposto alla Biennale di Venezia nel 1949 e nell’edizione successiva, poi l’avrebbe fatto nel ‘54 e nel ‘56. Una manciata di anni e Roberto Crippa, sempre qualcosa più di trent’anni, era un fenomeno prima di Brera che l’aveva visto crescere e poi dell’arte internazionale.

E’ stato l’ultimo dei monzesi davanti a un cavalletto a fare tanto. Fino a quel giorno di marzo nel 1972 – era il 19, la primavera sarebbe arrivata da lì a pochi giri d’orologio – quando nell’ultima spirale morì precipitando con l’aereo acrobatico a Bresso. Non era solo, con lui un allievo, che pilotava: gira, gira, le parole registrate dalla torre di controllo. Ma l’allievo non girò, non fece in tempo, si schiantò al suolo. Quello che era stato Roberto Crippa finì lì. Ancora oggi è un figlio inevaso della storia dell’arte italiana. Protagonista in vita fino alla sfrontatezza, fantasma dopo. Eppure il suo lavoro tiene, tiene e vende, stando a quanto raccontavano le statistiche delle aste solo due anni fa: il quarto per volumi di acquisto sul mercato dell’arte, dopo Fontana tornato a nuova vita con l’apertura del museo del Novecento a Milano, con quel paradigma dello spazialismo che da allora illumina le sere di piazza del Duomo, e un altro paio.

Sfuggente da morto con il suo lavoro quanto in vita. Quando faceva a cazzotti con il mondo della critica con «quell’atteggiamento aggressivo fino alla provocazione spavalda» che gli imputava Guido Ballo un anno prima che morisse, ricordato da Luciano Caramel nel 1999, a Monza, con l’ultima grande retrospettiva monzese a lui dedicata. L’ultima, già: la sua città si è dimenticata di cosa abbia rappresentato un anno fa, nel 2011, quando ricorreva il novantesimo anno di nascita, e lo ha fatto quest’anno, la scorsa settimana, quando erano passati quarant’anni dalla sua morte. Non le avrebbe prese sul serio, quelle dimenticanze, Crippa. Come non prendeva sul serio fino in fondo gli altri in vita.

Se qualcuno ha avuto qualcosa da rimproverargli, è stato alla fine il suo confondersi per eccesso di energia cinetica nei troppi rivoli dell’arte, nascondendo la sua voce e la sua tavolozza di volta in volta con lo spazialismo di Lucio Fontana e poi con il concretismo, con i sentori del postcubismo e quelli del tardo surrealismo, frequentando troppi “neo”, a detta sempre di Ballo, fino all’arte nucleare di Enrico Baj. Eppure il suo lavoro c’è e senza sbancare continua a restare: con uno sguardo di traverso, un mezzo sorriso, un po’ spaccone, come quando entrava al Giamaica – racconta Pino Corrias in “Vita agra di un anarchico”, la biografia di Luciano Bianciardi – e offriva da bere a tutti, dopo avere parcheggiato l’auto sportiva rossa dall’altro lato della strada.

Erano gli anni in cui tutto poteva essere e ancora non era, in cui lo stesso Bianciardi scriveva di bombe sotto i grattacieli del potere milanese mangiando a credito mezze porzioni nelle latterie di Brera e traducendo scrittori americani per tirare a fine mese. Crippa ce l’aveva già fatta. Il tempo gli ha dato ragione. Nonostante Monza.
Massimiliano Rossin