Eupilio, il Casino delle streghe e il Buco del piombo

L’Eupilis lacus è citato da Plinio il Vecchio nella sua Historia naturalis e ricordato da Giuseppe Parini nella poesia “La salubrità dell'aria”.
Lago di Pusiano. Di Idéfix – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1083383

L’Eupilis lacus è citato da Plinio il Vecchio nella sua Historia naturalis e ricordato da Giuseppe Parini come “beato terreno/del vago Eupili mio” nella poesia “La salubrità dell’aria”, composta nel 1759, per celebrare l’incontaminata terra natia, con i suoi ruscelli di acque limpide, l’aria tersa, i profumi del timo, del croco e della menta selvaggia. Questo silenzioso paesaggio lacustre è un luogo che pacifica, con le sue acque che si raccolgono nel Segrino e poi scendono a valle, tagliando il piccolo borgo dolce ai piedi delle sue colline, fino al lago di Pusiano. Una terra di Brianza con le cinque chiese che San Carlo Borromeo aveva inserito nei suoi itinerari pastorali, e a memoria di una devozione diffusa, quando ancora ogni frazione aveva il suo santo protettore: da San Martino in Carella, a San Vincenzo in Galliano, San Cristoforo in Mariaga, a San Lorenzo in Penzano e San Giorgio che, nelle acque del vicino lago di Pusiano, sconfisse il drago. Lungo un sentiero, in direzione di colle Molvesio si contano 14 stazioni di un’antica Via Crucis campestre, con le piccole cappelle votive e la Torre-castello della Ghita che, dal Medio Evo, veglia la via verso la pianura. In questi antichi luoghi molte sono le storie e le leggende che si tramandano, una fra tutte è quella del Casino delle streghe, il Casin di Strigh, un edificio signorile di grande fascino per la sua posizione solitaria e “romantica, un tempo usato come casino di caccia, di proprietà del vescovo e storico Paolo Giovio. Ancora oggi si può vedere la sua ghiacciaia rotonda che degrada verso il lago Segrino. Qui vi soggiornò, per lungo tempo, il pittore Giovanni Segantini dove dipinse alcuni dei suoi quadri più famosi. Si narra che, nella seconda metà del XVI secolo, proprio in questo luogo, vennero arse vive delle donne tacciate di stregoneria; dal XIX secolo in poi, invece, si raccontano di “oscuri maneggi e vessazioni perpetrati sulla popolazione e sulle fanciulle locali di un signorotto di nobiltà cadetta nel Seicento della Milano spagnola.”

Come non ricordare anche l’edificio medievale, chiamato il Casino delle fate, con le sue piccole finestre verticali simili a feritoie! Chissà, forse la vicinanza dei luoghi manzoniani deve aver alimentato leggende locali!

Vicino alla località detta Alpe del Viceré, all’interno della Riserva naturale della Valle Bova e a 700 metri di altezza, c’è la grotta, di età Mesozoica, chiamata il Buco del Piombo. La sua origine grazie ai fenomeni di tipo carsico, molto frequenti in alta Brianza. “A che servisse questo antro è ancora un mistero nella storia. È certo però che per qualche tempo valse d’abitazione e forse i Longobardi cacciati dai Franchi vi trovarono un asilo; forse supplì di ricetto durante le contese fraterne; forse una masnada di predoni esercitava di lassù le sanguinose escursioni… sei tu saldo sulle gambe, Hai tu coraggio nel cuore? Ascendi al decantato Buco del Piombo, spelonca ricavata dalla natura nel monte, e murata all’ingresso, per cui v’ha chi crede, indotto anche dal nome, che fosse questa una miniera di piombo, ma per ricerche che siano state fatte non vi si trovò mai reliquia di questo metallo.” (da Guida ai misteri e segreti della Brianza, Sugar Editore, 1970).

E’ un luogo mitico e magnetico, di dimensioni ciclopiche: 45 metri di altezza e 38 di larghezza, un museo a cielo aperto per tutti gli appassionati di speleologia, punto d’ingresso di un intricato sistema di gallerie. Per raggiungere la grotta bisogna salire circa 200 gradini che un tempo ne rendevano difficoltoso e pericoloso l’accesso, meta di studiosi e villeggianti sin dall’800: Fra i personaggi più illustri si ricordano il Viceré Ranieri d’Austria e la regina Margherita di Savoia.

L’affascinate testimonianza di questo luogo, risalente all’ottobre 1886, è tratta da “Emporio Pittorico Illustrazione Universale” di cui vi riporto uno scritto: “Tanto ò triste, monotona, squallida, la campagna intorno alla metropoli lombarda, quanto, poco lungi, di là da un raggio di venti, trenta chilometri, verso nord, la terra si presenta amena, ridente, pittoresca. Al piano d’ Erba: ogni dì festivo, ogni giorno di riposo, in ogni occasione di curiosità e di spasso, è il motto d’ ordine dei buoni milanesi. E al mattino, quando ancora tutto tace nella città ravvolta nel velo della notte, o quando appena un debole lume imbianca l’orizzonte, è un viavai di gente alla ferrovia del Nord e uno strepito allegro di impazienti che fanno ressa agli sportelli del biglettinaio, che si pigiano ai cancelli per farsi strada e prendere d’assalto i carrozzoni. Poi via: una specie di locomotiva quadrupede, con una lunga fila di gabbie sconnesse, di baracche ambulanti, trascina centinaia di persone avide d’aria, di sole, di verde. Lungo la strada, di qua, di là, nelle stazioni, continuo scendere e salire; al piano d’ Erba si arriva con lo spuntare del sole, tuffati in un mare di luce, pieno il petto d’un aria buona, salutare, balsamica, pieni gli occhi di uno spettacolo stupendo. Lassù, in alto, lo sguardo si lancia lon¬tano, lontano, in uno spazzo di ben trenta chilometri, o per una fuga di poggi e di colli rinserrati dalle pendici briantee, dalle propaggini comascine, dal piano milanese; è uno spazzo magnifico, un tempo probabilmente tutto coperto dalle acque dell’Eupili, ora tempestato di vigneti e di gelsi, con infinite gradazioni di colori; chiazzato d’argento là dove è stesa la immota superficie dei laghetti di Annone, di Pusiano, d’Alserio, di Montorfano. Un duro, petroso calle, rallegrato però da alte ombre protettrici e da una frescura confortatrice, dal borgo d’Erba conduce al Buco del piombo. A un risvolto del sentiero che serpeggia sui fianchi del monte, l’imponente spettacolo s’affaccia d’ un tratto e sorprende con un senso quasi di sgomento. È una gola immensa di pietra, è una fauce smisurata di monte che si trova spalancata dinanzi agli occhi. Una gola, una bocca immane, che canta, che narra, non so quale storia paurosa di lotte vulcaniche, di convulsioni telluriche, di schianti, di scoscendimenti, di ruine. Salite. Centocinquanta gradini vi portano su ad un atrio grandioso, la cui vòlta formidabile vi guarda da quasi cinquanta metri d’altezza, le cui spalle vi lasciano cinquantacinque metri di spazio per respirare a vostro bell’ agio…. In fondo alla gola dell’atrio, quasi come una specie di mostruoso esofago, vi attrae il buco propriamente detto, l’antro tenebroso, lo speco pauroso, del quale nessuno ha potuto mai toccare la fine. Per un lungo tratto vi penetra la luce, e lo speco appare or più, or meno, largo otto, nove metri, alto otto o dieci, e sparso di incrostazioni calcaree. Più addentro non ci si può spingere senza fiaccole che rischiarino il passo; seguono varii antri divisi a guisa di celle, con tutto un lavorìo meraviglioso di architettura e di scoltura, dalle pareti umide, vischiose, luccicanti; dal suolo aspro di ciottoli, di massi, di scaglioni, qua e là sparso d’acqua e di pozze. Inoltrando sempre, a un certo punto la caverna si abbassa, mentre le acque si alzano e ne riempiono forse tutta la bocca. Allora bisogna tornare indietro. All’uscire dall’antro, una rifiatata vi racconsola i polmoni angustiati dal chiuso, e vi danno nuova allegrezza le acque che dallo speco vanno ad ingrossare il torrente Bova, che si dirupa in aspro vallone, con bellissimo aspetto. Che il Cicerone manchi sul luogo, nenche dubitarne. Tra l’altre cose, egli vi dirà, anzi vi additerà, su quei pochi ruderi che sono nell’antro, una data scritta, anzi pinta, in nero, da S.M. la regina d’Italia, allora, quando scriveva, principessa. E allora, ultima meraviglia della vostra gita, guarderete con occhi strabiliati quella data, mal riuscendo comprendere come non ancora unghia devota di archeologo realista o di monomane inglese non abbia raschiato e trafugato quel pezzo di calcinaccio, di tanta invidia degno”.