Monza, la stella cadente del balletto Cent’anni fa moriva Claudia Cucchi

Claudia, anzi Claudina Cucchi: la stella cadente di Monza che oltre un secolo fa incantava i palcoscenici del balletto di tutta Europa. Una storia di ascesa e caduta nell’Italia risorgimentale. È morta nel mese di marzo del 1913. Lasciando un libro di memorie.
Claudina Cucchi
Claudina Cucchi

“Austriacante”. Nient’altro che una parola, una piccola infamia, quanto bastava per metterla al bando. E dire che era stata una stella, una stella internazionale. Anzi, un’étoile. Quando Claudina Cucchi aveva lasciato Monza e poi Milano era già un’icona del balletto. Ed era già incontenibile.

Quel carattere irrequieto era quello che l’avrebbe portata prima sugli altari della gloria europea e poi nello sprofondo dell’alcol e del silenzio. Il suo ritorno a Milano, ecco la sua condanna: troppo vicina alla corte degli Asburgo per quella città che aveva fatto di tutto per metterli fuori dalla porta.

“Austriacante”: una lettera scarlatta, l’inizio della fine, tanto più se il sospetto era di essere stata l’amante dell’imperatore Francesco Giuseppe. E se «non ebbe, come taluni credono, gli omaggi teneri del vecchio imperatore – si leggeva allora sull’Illustrazione italiana – accese una rapida passione nel cuore del rigido arciduca Alberto». Lontano da quegli anni Sessanta dell’Ottocento, nessuno forse le avrebbe girato quei tarocchi.

Era di Monza, Claudina Cucchi: i più la ritengono nata il 6 marzo del 1834, da Giuseppe e Colomba Obliati, per altri la data è da anticipare di sei anni. Sulle strade della città di Teodolinda aveva iniziato a danzare, davanti agli organetti girovaghi, al suono di una musica ticchettante e stonata. Forse su quei passi improvvisati la vede muoversi Sofia Fuoco: fu lei «che mi iniziò ai primi passi della danza » racconta la stessa Cucchi in “Vent’anni di palcoscenico”, una rara autobiografia pubblicata nel 1904. Fu lei «che incoraggiò i miei parenti a scegliermi tale carriera riconoscendo le mie buone attitudini, fin quando contavo sei anni ». Sei anni, forse sette: a quell’età finisce alla scuola della Scala, e non era una scuola qualsiasi: sotto gli insegnamenti del teorico della danza Blasis, di Huss, di Casati si diventava davvero qualcuno. Il suo esordio sul palco del teatro milanese ha una data: il 1848, l’anno della rivolta. Un anno dopo si guardagna il primo ruolo da solista nel balletto “Giovanni di Leida”, poi la sua carriera esplode: prima ballerina alla Canobbiana e sul palco scaligero. Tutto sembrava fatto. Poi il primo colpo di testa: corre a Parigi con un conte Locatelli, in fuga per debiti, ma quella follia sarà il suo vero passaporto per la fama internazionale.

Era il 1854 e dopo qualche periodo difficoltoso la sua arte vince: trova un ingaggio all’Opéra nel balletto “Le quattro stagioni” e in un attimo diventa mademoiselle Couqui, che la critica francese definisce «la primavera in persona, danzatrice energica, graziosa, leggera». È fatta: arrivano a cercarla dal Brasile, ma alla fine cede alle lusinghe del teatro imperiale di Vienna, la Hofoper. Dieci anni di successi, dal ’57 al ’68, con tournées a Berlino, Londra, Pietroburgo, Varsavia. La sua condanna, appunto. Quando torna a Milano gli italiani le voltano le spalle. Troppo a lungo con gli austriaci, troppo successo asburgico. Se piace là, non piace qua, si dicevano nella neonata nazione, che in più faceva rimbalzare di bocca in bocca quella voce di una relazione con l’imperatore.

“Austriacante”, punto e basta. Allora riparte: tenta la fortuna ancora a Pietroburgo, ma la critica risponde freddamente. Altre cinque stagioni sui plachi. Quando si ritira – lasciandosi alle spalle un fama sbiadita che lei attribuisce ai veleni – può contare comunque su una ricca rendita e una casa meravigliosa, a Milano. La prima, un dono dell’arciduca Alberto. Arriva un matrimonio di corto respiro con il barone Ferdinando Zemo (aiutante di camera di Vittorio Emanuele II, cui la si attribuì di nuovo come amante, come nel libro di Nino Bazzetta de Vemenia del 1923, “I Savoia e le donne”), poi la rovinosa relazione con un tal Stampa, che la manda sul lastrico e la trascina nell’alcolismo. «L’ho rivista un giorno mentre ciabattava nel fango nei dintorni della stazione – scrive altrove Bazzetta – senza cappello, tutta brandelli e sbrindelli e zacchere, con cernecchi grigi che le dondolavano umidicci sul volto, logora, spaurita, cenciosa, ma ancora col corpo diritto, ancora col passo elegante». Ha una sorella, a Monza, suora, di cui si sa poco o nulla. Lei finisce i suoi giorni al Pio albergo Trivulzio. Muore l’8 marzo del 1913: dimenticata allora, un pezzo di storia del balletto romantico un secolo dopo.

L’articolo è stato pubblicato sul Cittadino di Monza il 5 maggio 2011: lo riproponiamo oggi nell’anno del centenario della sua morte, con una sorpresa. Oggi è infatti possibile trovare online il raro libro cui Claudina Cucchi ha consegnato le sue memorie, grazie al Dipartimento di musica e spettacolo dell’università di Bologna. Si legge qui: Vent’anni di palcoscenico.