Lorenzo Monguzzi è “Zyngher”: un disco in dialetto per parlare al mondo

Così lontani e così vicini: il mondo si accorcia e allora anche il dialetto brianzolo può parlare al mondo. Da qui è partito Lorenzo Monguzzi per il suo nuovo album solista, “Zyngher”.
Lorenzo Monguzzi
Lorenzo Monguzzi

Nel 1986 la cantautrice californiana Suzanne Vega ha scritto Gypsy, gitano, un brano che l’anno successivo sarebbe stato parte del suo album forse più celebre: “Solitude Standing”. Gli stessi anni in cui ancora non troppo celebre per ottenere palchi più importanti in Italia qualcuno l’ha pure incontrata in Brianza, a Camparada, in quel Cinghei che era una pizzeria e anche qualcosa di più.

Se avesse dovuta scriverla da queste parti avrebbe dovuto intitolarla in un altro modo: zingaro, o meglio zyngher, una delle tante parole che in lombardo non suonano necessariamente spregiative: una vox media, avrebbero detto i latini, capace di vestirsi di contesto e di intenzioni. Nelle intenzioni della cantautore Lorenzo Monguzzi, un programma artistico: quello di chi è abituato (Covid a parte) a essere zingaro per professione musicale e chi pensa che una mente zingara sia indispensabile per confrontarsi con il mondo. Ed è “Zyngher” infatti, il titolo del secondo album solista del monzese: la versione in brianzolo del brano di Vega, atterrata – un’altra volta – in Brianza.

Pubblicato a fine dicembre da Maremmano/Appaloosa e distribuito da Ird, il disco è mezz’ora di patois brianzolo tra brani originali e adattamenti del panorama internazionale: Clash, Nick Cave, Johnny Cash. Un lavoro «nato per gioco» racconta Monguzzi, che sceglie le radici come Woody Guthrie avrebbe scelto the roots. Che ha alza il cappello allo zingaro «a chiarire che l’obiettivo non è creare un’area protetta intorno alla propria cultura locale, ma al contrario imbastardirla e costringerla a confrontarsi con il mondo intero, che peraltro le è sempre più vicino». Il cantautore ha voluto «provare a tradurre nel mio dialetto (brianzolo, che sarebbe a dire un milanese più nostrano) alcune canzoni in lingua inglese a cui sono molto legato. Mi è capitato così di vedere artisti come Suzanne Vega, Clash, Nick Cave, Johnny Cash, catapultati in un ambiente diverso dal loro, più ruspante e provinciale. L’effetto non mi sembrava male, strambo ma interessante, con un fondo di verità che le canzoni continuavano a mantenere», affiancano di pezzi originali, ma sempre dialettali «che mi sembravano estremamente coerenti con il resto».

Una coerenza stilistica che arriva da lontano, dal momento che nelle sue performance live con i Mercanti di liquore, di cui è stato uno dei fondatori, Monguzzi aveva già messo alla prova la voce su brani del repertorio milanese e poi, nel 2013, aveva intitolato il suo precedente album solista “Portavèrta”, porta aperta, con un primo brano non in italiano. I brani, allora: “La tusa de Lisùn”, “Henry Lee” che deriva da Cave, “Un alter cafè” e poi “I rivultèi de Brixton”, cioè “The guns of Brixton” dei Clash e quindi “Zyngher”, poi “L’è minga vera”, il Cash di “San Vitùr Blues” (in origine Folsom prison blues” e infine “Preghiera del làder”.

Tra le collaborazioni c’è ancora Piero Mucilli alla fisarmonica come ai tempi dei Mercanti, poi Nadi Giori dei Sulutumana, Adriano Sangineto con il suo repertorio di strumenti che vanno dalle arpe all’handpan, poi Raphael Maillet, Leslie Abbadini, Matteo D’Agostino, Max Malavasi, Jay Beretta, Andrea Marinaro, Filippo Pax Pacuzzi ed Emanuele Maniscalco.

In vendita a 15 euro, “Zyngher” si può acquistare sui siti dell’etichetta e del distributore: appaloosarecords.it e ird.it.