Il racconto dell’estate: “La storia di Bitto un ausiliario d’eccezione”

Un giovane scrittore regala ai lettori del Cittadino una commovente storia di amicizia tra un ragazzo disabile e il suo cane. Ecco la storia scritta da Mattia Ceruti.
“Il suo unico amico”, 1871 quadro di Briton Rivière
“Il suo unico amico”, 1871 quadro di Briton Rivière
Capitolo 1

Il mio nome è Bitto. So che è un nome strano, e, se vogliamo, non così calzante per un cane come me, però a me piace: probabilmente la mia famiglia mi ritiene pregiato proprio come il formaggio che mi presta il nome, e se lo dicono loro, non posso non fidarmi, ed essere orgoglioso di me stesso, e del mio nome!

Tanto per parlare un po’ di me, in teoria io non sarei proprio un cane qualunque: sono un Flat-coated Retriever, e, per quanto posso ricordare della mia infanzia più tenera, sono stato cresciuto con meticolosa cura da una madre ferma e paziente e da un Allevatore molto competente, almeno finché non sono stato adottato dalla mia prima famiglia umana.

Ad essere sincero fatico a definire i miei primi padroni una vera famiglia: evidentemente, ai loro occhi altro non ero che il costoso regalo di compleanno per un bambino viziato, e la bella statua vivente per il grande giardino della loro villa. Sta di fatto che il “mio” bambino, passato l’entusiasmo iniziale, si limitava ad espormi come un trofeo ai suoi amichetti in visita, per poi abbandonarmi a me stesso nella vuota vastità dell’enorme giardino: non mi ha nemmeno insegnato a rispondere a un nome, tant’è che, oltre a quello con cui mi sono appena presentato, altro non ne conosco.

Fu in uno di quegli interminabili giorni di solitudine in giardino che, da buon cucciolo esuberante quale ero ai tempi, mentre stavo correndo dietro alle lucertole, capitai proprio oltre l’alta siepe che separava la mia casa dal resto della città: non ci volle molto che mi spingessi fuori dalla cancellata e che la mia curiosità mi portasse ad esplorare quell’autentica marea di posti nuovi. Sembrava incredibile la profusione di odori, suoni e immagini che giungevano via via ai miei giovani sensi canini, ed era divertente rovistare nella spazzatura in cerca dei cibi più strani e gustosi, e dormire facendo di bidoni e vecchie scatole le mie tane improvvisate. Peccato che tutto questo mio girovagare avesse allarmato gli esseri umani dei dintorni, e che una sera, proprio mentre avevo appena messo gli occhi su un appetitoso osso di prosciutto sul retro di una macelleria, delle minacciose mani estranee mi agguantarono per la collottola, e la mia avventura alla macchia ebbe la sua conclusione dopo meno di una settimana.

Fui così spaventato dalla cattura improvvisa che dimenticai tutto ciò che accadde subito dopo: l’unica certezza che ho è che mi svegliai la mattina seguente al suono di voci umane dal tono invitante, alle quali non seppi comunque resistere, nonostante le turbolenze appena passate. Dunque, mi trovai ancora in mezzo a mani sconosciute, questa volta però molto meno invadenti, se non fosse che, appena queste mi riposero sopra un alto tavolo metallico, una strana figura vestita di bianco cominciò a tastarmi qua e là in tutto il corpo, rasentando davvero la maleducazione, almeno in termini canini! A quei tempi capivo a malapena chi fosse quel tipo strano, e non osai ribellarmi alle sue ispezioni: ora so che si chiama Veterinario, ed è uno dei pochi esseri umani di cui vale la pena avere un certo timore.

Visite veterinarie a parte, da quel giorno la mia nuova casa era un recinto abbastanza piccolo, dal pavimento di piastrelle, in cui avevo sufficiente spazio per fare due passi ogni tanto, e quel poco di agio che bastava in una vecchia cuccia di legno: non certo l’immensità della villa del passato, ma abbastanza per vivere tranquillamente da cane.

La cosa più importante ancora, era che finalmente avevo degli esseri umani che venivano a trovarmi con sufficiente regolarità, ed ero circondato da altri cani con cui, dalle nostre rispettive casette, potevamo intrattenerci in sonore discussioni.

Un passo avanti, no? Almeno, per quei tempi lo era davvero!

Capitolo 2

La vita in canile si svolgeva senza particolari sorprese, e a me, che come tutti i cani sono un animale abitudinario, non dispiaceva poi tanto aver iniziato ad acquisire i miei punti di riferimento. Però, c’è anche da dire che cominciavo a crescere, e il mio recinto si faceva man mano più angusto, e soprattutto abbastanza spoglio in quanto a stimoli. Ciononostante, spesso riposavo tranquillo nella cuccia, oppure prendevo un po’ di sole, sempre in attesa della prossima passeggiata, o del prossimo pasto. Evidentemente, fino ad allora non avrei mai immaginato che qualche essere umano mi avrebbe preso definitivamente con sé, rendendomi ancora un animale di casa.

Accadde però che una bella mattina d’autunno del settimo mese della mia vita, tra le tante persone che passavano a far visita a noi cani del canile, un ragazzino si fermò proprio davanti alla grata del mio recinto: era un umano particolare, ed io lo sentivo.

La mia curiosità, forse un po’ invadente, era concentrata sul fatto che, a modo suo, aveva quattro zampe, come noi cani: non solo infatti si reggeva sulle sue gambe come gli altri umani, ma, forse per compensare la loro gracilità evidente, appoggiava le sue mani su delle grucce metalliche che, proprio come delle zampe anteriori, gli davano un maggiore appoggio sul terreno. Un tipo davvero speciale quindi, dico bene?

Fu così che mi alzai dalla cuccia, scodinzolai amichevolmente e mi arrampicai fin sopra la recinzione che ci separava per arrivare a guardare dritto in faccia il simpatico umano: lui ricambiò lo sguardo, sorridendo e osservandomi con i suoi occhi scuri, come i miei, e passandosi una mano nei capelli neri e arruffati… guarda caso, proprio come la mia pelliccia. Si capiva che c’era dell’intesa tra noi due, e si capiva ancor meglio che il ragazzino stava pensando a qualcosa di importante, nel suo complesso cervello umano.

In meno di un paio di minuti mi indicò, attirando verso di me l’attenzione dei suoi genitori e del responsabile delle adozioni: l’entusiasmo della famiglia nei miei confronti fu pressoché immediato, e non ci volle molto altro perché l’addetto facesse loro firmare i moduli per l’adozione. Io intanto fui portato fuori dal mio alloggio e agganciato al guinzaglio: la meta questa volta non era il cortile del canile, ma la città fuori dal portone, e soprattutto la casa dei miei nuovi padroni.

Sulle prime devo ammettere che ho avuto una certa dose di paura a lasciare quello che per un mese abbondante era stato il mio rifugio, ma l’entusiasmo da cucciolone era tanto, e poi… quel giovane umano un po’ strano mi piaceva proprio!

Capitolo 3

Più di sei mesi erano già passati con la mia nuova famiglia, e dal cucciolone imbranato che ero appena arrivato a casa, avevo ormai superato l’anno di età. Più o meno, io e il mio umano eravamo coetanei, a questo punto delle nostre vite: lui, infatti, allora aveva circa quattordici anni, se non sbaglio.

Ebbene? Che dire di questo primo periodo in famiglia?

Non mi sono mai reso conto prima di allora di cosa volesse dire avere un umano del cuore, un umano che ti riempie la ciotola della pappa con le sue mani e nel deporla a terra ti chiede con voce ferma e decisa, ma così piena d’amore, di aspettare prima di avventarti a caso sul cibo: è quella voce che rende davvero speciale il cibo che ti viene offerto, quella voce che rende vivo ogni gioco, quella voce che rende prezioso ogni momento della vita di un cane domestico. Ricordo che, quando accompagnavo il mio Padrone al parco, e lui pian piano mi seguiva con le sue zampe speciali, usavo passargli un vecchio pallone tra le grucce e invitarlo al gioco alla maniera di noi cani: ecco quindi che lui colpiva la palla con una delle due grucce, e allora io correvo avanti abbaiando, tagliando la traiettoria della palla e fermandola con un morso delicato… e così ci divertivamo a modo nostro, ed io imparavo a rispettare i suoi spazi, mentre lui si divertiva ammirando i miei salti e le mie capriole degne quasi di un cane da circo.

Lasciando però un attimo da parte gli scenari idilliaci dei nostri giochi, devo ammettere che la mia testa era ancora più quella di un eterno immaturo che quella di un affidabile compagno a quattro zampe: non passava giorno in cui la mia bocca non comandasse sul mio cervello e andassi ad esplorare il cestino della spazzatura, o che spargessi in giro il bucato incustodito, ritenendo commestibili anche i tessuti più ruvidi. Lascio quindi a voi immaginare le reazioni dei miei umani quando scoprivano gli effetti delle mie scorribande casalinghe…

Ammetto le mie colpe, soprattutto se ripenso ad un momento specifico del mio primo anno da cane di casa. Un giorno di questi, con il mio umano preferito, stavamo contemplando l’orizzonte di un giardino pubblico, lui seduto in panchina, ed io accucciato ai suoi piedi. Poco più avanti, dei bambini stavano giocando a pallone, con un pallone che… ma certo, per i miei occhi canini e dunque non poco miopi, era proprio come il mio! Ecco quindi che il mio cervello mi svegliò di colpo dal mio torpore serale, e non potei che rispondere all’invito di quella palla così famigliare concentrando tutta la mia pulsione predatoria verso di essa: con uno strattone mi liberai dal guinzaglio con cui il padrone mi tratteneva distrattamente, e… una gruccia cadde a terra, ma non fece in tempo a toccare il suolo che io già mi ero fiondato sulla palla, che in meno di un minuto era diventata mia. Peccato che i bambini non la pensassero proprio così: mi urlavano tutti contro, un paio quasi piangevano, e uno mi rifilò pure un calcio nel sedere. Fortuna vuole che ad un tratto mi girai di colpo verso il mio Padrone, e… beh, evidentemente lui si stava già sgolando da quasi cinque minuti quando io mi accorsi dei suoi richiami, una volta che ebbi riattivato il mio udito (che evidentemente non mi serviva, mentre ero tutto intento ad usare zampe, bocca e vista nella mia caccia al pallone).

In quel caso non successe niente, anche perché le madri dei bambini – piccoli, malefici provocatori di cani sportivi! – furono comprensive nei confronti del mio Padrone: fu lui, più che altro, a non essere tanto comprensivo con me, visto che dopo che mi ebbe riacciuffato mi assestò un sonoro sculaccione, e non mi diede che occhiatacce per tutto il tragitto di ritorno a casa. Oggi so comportarmi al guinzaglio, e ho imparato che è molto meglio per tutti saper ignorare certe provocazioni del mondo intorno a me, anche perchè spesso queste arrecano più danni che piaceri, ma mi ci è voluto un certo sforzo, che allora, forse non saremmo nemmeno stati in grado di immaginare. Per certo, durante la prima estate nella nuova casa, sapevo solo che il mio Padrone era particolarmente assente e intrattabile: qualcosa di grande e misterioso, chiamato “esami di terza media”, assorbiva buona parte della sua energia e non poco del suo buon umore (già non sempre scontato, per ovvi motivi fisici). Fortuna che c’era il suo buon cagnolone… che però, in quel periodo era stato delegato alle amorevoli cure della Mamma e del Papà. Biscotti a volontà su ordinazione? Divano liberamente accessibile per tutto il giorno? E chi mai li rifiuterebbe, certi privilegi?!

Capitolo 4

Nel mese di giugno, quei mostri misteriosi detti “esami di terza media” vennero coraggiosamente liquidati dal mio Padrone in meno di due settimane, e così potemmo goderci le meritate vacanze estive: fu la mia prima avventura al di fuori della mia città, ed ero molto eccitato all’idea di un lungo viaggio su quella bella cuccia su ruote chiamata automobile. Ero così entusiasta che saltai con foga nel portabagagli, rimanendo quasi incastrato in mezzo alle tante valigie strapiene dei miei compagni umani: non so come, ma, nonostante la posizione assurda, nel giro di un quarto d’ora riuscii comunque a prender sonno, cullato dal monotono brontolio del motore.

Non apersi occhio se non quando il mio corpo si accorse che le ruote sotto di me avevano smesso definitivamente di far rumore: la Mamma aveva appena aperto il portellone del bagagliaio, che… dove eravamo finiti? Il sole colpiva con violenza i miei occhi ancora assonnati, ed ecco che riuscii finalmente ad alzarmi, darmi una bella scrollata, stirarmi le zampe e scendere dall’auto: d’istinto annusai profondamente l’aria che mi inebriava le narici, drizzai le orecchie e mi guardai intorno. Cosa ricavai da questa prima ispezione del nuovo territorio? Un pungente odore che mi lasciò il tartufo umido e salato, un rumore ripetitivo ma stranamente familiare e… una distesa interminabile di sabbia, ed una ancora più infinita di acqua, e tanti, ma tanti giganteschi ombrelli, sotto cui si affollavano branchi di umani, numerosi come mai ne avevo visti prima. Fui presto informato dal mio padrone che ci trovavamo in vacanza al mare: una forma di passatempo estivo più da umani che da cani, ma che, a suo parere, a un Retriever non sarebbe dispiaciuto per nulla.

Mentre i miei umani caricavano e scaricavano le loro tante e pesantissime valigie su per le scale di un albergo (un’altra nuova casa, come se ce ne fosse bisogno…), io fui lasciato ad attendere legato a uno di quegli enormi ombrelli di cui vi ho detto prima.

Di lì a poco, non feci in tempo ad alzare la mia zampa posteriore sinistra, tanto per liberare la vescica quanto per lasciare la mia firma odorosa su quel suolo completamente nuovo, che da dietro le mie spalle sopraggiunse una figura quadrupede piccola e tarchiata, e la mia memoria di specie mi portò lestamente sull’attenti. Ecco, come da previsione, un altro cane, maschio perdipiù: meglio quindi cominciare ad alzare la coda, e magari anche la cresta…

Errore! Era vecchio, ringhioso, e non si lasciò certo intimidire da me, convinto di saper fare il cane dominante all’età di appena un anno: infatti, in breve mi si presentò, con la sua rugosa espressione tipica da Bulldog inglese, e mi liquidò con un’annusata di rito, e una breve ramanzina a proposito dei diritti di precedenza su quel territorio, che da quel giorno avremmo dovuto condividere. Bell’accoglienza, in un luogo di vacanza, no? Però, c’è da dire che le regole di ospitalità sono un’altra delle prerogative specifiche dell’uomo, non certo del cane!

Fortunatamente nel giro di poco tempo i miei umani tornarono da me, e il mio padrone ne approfittò per sganciare il guinzaglio e lasciarmi fare una salutare corsetta.

Intanto, tutti ci dirigemmo verso la spiaggia poco distante.

I miei polpastrelli erano increduli: tutto quello spazio per galoppare, e per scavare, cosa mai vista prima! E poi… l’acqua! No, non era una piscina, quella: era proprio il mare!

Ebbene, io sono un Retriever, no? Dunque, da bravo cane d’acqua, non mi lasciai certo sfuggire l’occasione, e mi lanciai in mare con la rincorsa, incontro alle onde, affrontando le correnti… e sbagliando clamorosamente a prendere le misure con l’acqua. Inutile dire che, dopo le mie incaute prodezze da cane nuotatore, mi trovai steso a terra a zampe incrociate, con il muso e la bocca pieni di sabbia inzuppata, e fui presto oggetto delle risate degli umani tutt’intorno, oltre che dei miei, alquanto divertiti (alla faccia mia, e del retriever che c’è in me… e non so se mi spiego!). Diciamo che la sana doccia che mi fece il Papà alla sera, fu un contatto ben più piacevole con l’acqua, e decisamente meno umiliante!

Dopo che ebbi sperimentato a sufficienza le mie potenzialità idrodinamiche, mi accucciai – abbastanza sfinito – accanto alla stuoia dei miei umani, facendo la guardia alle grucce del mio Padrone: anche lui, infatti, voleva farsi un bagno, e si fece accompagnare dai suoi genitori, sfidando le difficoltà. Capivo che non era molto a suo agio tra la sabbia cedevole e il mare mosso, ma comprendevo anche che alla sua giovane età non accettava di dover restare a riva, limitandosi a guardare gli altri nuotare. Io, da parte mia, frenai l’impulso naturale di seguirlo e riportarlo all’asciutto (in barba alla mia memoria di razza), cercando di rendermi conto che lui era il mio umano preferito, e non un insensibile pezzo di legno, né tantomeno un’anatra stecchita: libero di andare dove gli pare, quindi (a patto che non si faccia male, o peggio che qualcuno gli faccia male).

A questo punto, è doveroso che io faccia un’importante precisazione sul conto del mio Padrone: cominciavo a notare che le sue gambe erano sempre più rigide, che aveva sempre più bisogno di fermarsi, di appoggiarsi a Mamma e Papà, e non più solo alle sue grucce. Proprio quella sera, non feci in tempo ad ambientarmi nella nuova camera, che successe qualcosa di davvero allarmante. Preso dall’euforia, feci un balzo sul materasso del suo letto, così, per provocarlo e invitarlo al gioco richiamando la sua attenzione, ma lui non si mosse, né mi redarguì come al solito, ma lasciò che mi avvicinassi a lui: aveva il viso rigato di lacrime, e guardava le sue gambe magre e deboli, in silenzio, con un’aria rassegnata, di paura e disprezzo, poi si mise a guardare me, e prese a singhiozzare ancora più forte. Io allora appoggiai la mia testa al suo fianco, e mi limitai ad un lungo sospiro, così come fecero Mamma e Papà, che lo rincuorarono poi con la voce, e riuscirono, in un modo o nell’altro, a placare la sua sofferenza. Per fortuna, tutto si risistemò in qualche modo, e, mentre il mio Padrone restava in camera a riposare prima dell’ora di cena, io fui portato a fare due passi di servizio da Mamma e Papà. Stavamo giusto per rientrare in camera quando avvertii un’altra carica di sconforto nei miei umani, appena quando Mamma e Papà si sedettero su una panchina, e presero a guardarmi intensamente, con un’aria di affettuoso dispiacere, trattenendo anche loro le lacrime: non so cosa intendessero dirmi, con le parole e con gli occhi, ma anche solo il tono di voce non prometteva nulla di buono.

Capitolo 5

La vacanza al mare non durò a lungo, e tornammo a casa tutti insieme, non molto più allegri di quanto fosse il mio Padrone: si capiva che stava sempre più male fisicamente, che era a disagio, e che qualcosa di molto faticoso lo attendeva, anche se cercava di dissimulare il malessere il più delle volte. Non si occupava di me da molto tempo, era sempre più affaticato nel muoversi, e quasi gli veniva difficile chinare il busto per raccogliere la mia pallina preferita quando ci capitava di poter giocare, finché venne un periodo in cui, per via delle gambe intorpidite, non lo vedevo che seduto o coricato a letto.

Nel giro di qualche giorno, avvenne che ci dovessimo salutare, e, dall’atteggiamento con cui mi si rivolse, ebbe tutta l’aria d’essere per sempre: si chinò di fianco a me, mi guardò, mi lisciò leggermente le orecchie pendule e, trattenendo il pianto mi parlò a lungo: tutto quel che capii del suo discorso fu “bravo cane”, e questo mi bastava, ma era una consolazione davvero magra, evidentemente per entrambi. In ogni caso, lui se ne andò via accompagnato dai suoi genitori, e la porta di casa si chiuse davanti a me. Quel giorno io attesi, per un’intera mattinata, e per la prima volta senza neppure il minimo motivo per scodinzolare.

Verso mezzogiorno per fortuna la serratura della porta scattò, ed entrò in casa un volto famigliare: era il Papà. Da solo, però: il mio Padrone non c’era ancora. Stetti allora ad aspettarlo per quasi una settimana, mentre Mamma e Papà, alternandosi nel tornare a casa, spesso discutevano a malincuore sul mio conto, parlando di qualcosa di poco comprensibile, che suonava più o meno come “pensione per cani” e “nuova famiglia”.

Di male in peggio, ad ascoltare le loro voci: nessuna traccia del mio Padrone da giorni, e un’atmosfera decisamente depressa in casa. Che ne sarebbe stato di me?

Capitolo 6

Uno di quei tristissimi giorni in cui il mio Padrone era via di casa, ed io me ne stavo tutto solo rintanato nella mia cuccia, capitò che un pomeriggio il Papà tornasse a casa più presto del previsto, e, cosa stranissima, particolarmente allegro, tanto che, non appena io andai da lui per fargli le feste di rito, quasi mi sollevò, tutto eccitato, come a volermi prendere in braccio: mi scosse tutto con affettuoso entusiasmo, esclamando la magica parola “soluzione”.

Io, un po’ stordito dalla manifestazione di gioia inaspettata, scodinzolai a mia volta e lo seguii trotterellando, mentre ci dirigevamo a passo spedito verso l’automobile di famiglia.

Che forse andassimo a trovare il mio Padrone? No, purtroppo: però, fui portato in un luogo incredibile, mai visto prima, e dal quale uscii davvero cambiato.

Quel pomeriggio, durante il viaggio in macchina, ero troppo agitato per dormire profondamente come mio solito, e mi guardavo intorno, non riuscendo a trattenere qualche mugolio di disappunto, finchè non arrivammo alla nostra fantomatica destinazione.

Sulle prime temetti di essere tornato al canile, visto che ero circondato da abbai di altri cani di ogni tipo, ma poi ebbi modo di cambiare idea, quando vidi il grande prato ben tosato, alcuni multiformi ostacoli di legno e delle strane tendine colorate agli angoli del campo rettangolare, e riuscii a capire chi erano gli altri cani intorno a me.

Devo ammettere che sulle prime mi sembrarono tipi un po’ freddi, quei cani lì, visto che non mi diedero che una veloce occhiatina di benvenuto, mentre se ne stavano a guardare i loro padroni, così composti di fianco a loro, contemplandoli come se avessero avuto una qualche mistica visione, ma presto dovetti ricredermi: erano tutti tra i quadrupedi più cordiali che avessi mai conosciuto, e diventammo presto compagni affiatati durante il nostro tempo libero.

Stavo giusto guardandomi intorno, abbastanza entusiasta del nuovo ambiente, che da una casetta poco distante uscì un signore con un leggero impermeabile sgargiante e abiti trasandati e variamente odorosi, che allo stesso tempo mi fece intimorire ed incuriosire, come se qualcosa di misterioso ci avesse già uniti, sebbene non ci fossimo conosciuti che in quel preciso momento. Dopo aver salutato e stretto la mano al Papà, con risolutezza prese il mio guinzaglio, e poi mi ispezionò con cura (ahimé, peggio del veterinario…), mentre io non sapevo che fare, e restavo fermo immobile, al massimo della neutralità. Mi portò con lui e il Papà nel suo ufficio, dove io stetti accucciato a metà tra i due, indeciso davvero su chi seguire, mentre tra umani evidentemente si parlava di me, e ci si scambiavano informazioni e recapiti. Di lì a poco, non fu mia la scelta di chi seguire, visto che il Papà mi salutò in fretta, pur con lo strano entusiasmo che ci inebriava tutti in quel giorno particolare, e se ne andò.

Superato l’iniziale distacco, l’Addestratore (così mi era noto quell’umano di nuova conoscenza) mi portò al mio recinto, e, dopo avermi dato una lunga carezza sul fianco, e tolto il mio vecchio collare di cuoio, mi passò una ciotola piena d’acqua, e, chiudendo il cancelletto in vista della mia serata di ambientamento, si congedò, senza quasi darmi attenzione, ma tradendo la tipica curiosità degli esseri umani.

Non che fossi molto entusiasta della mia ultima sistemazione, ma passai una prima notte abbastanza tranquilla, presso il Centro di Addestramento.

La mattina dopo fui svegliato dal rumore della porta che si aprì davanti a me, ed ecco comparire di nuovo l’Addestratore, e con lui… la colazione! Aveva la ciotola piena tra le mani, sicuramente c’era da fidarsi di lui! Il rito che mantenni fin da quando ero un minuscolo cucciolo in attesa che la mamma mi passasse qualche boccone direttamente dalla bocca appena sollecitata da me, si scatenò vibrante dal mio stesso corpo, e si rivolse al mio nuovo amico bipede sotto forma di salti, spintoni, brontolii e leccate rivolte al viso dell’umano.

Stavolta, però, stranamente, questa tattica ormai consolidata non funzionò affatto. L’Addestratore tenne per sé la ciotola, e si limitò a guardarmi con aria d’attesa, come a dire: “Se vuoi questo cibo, te lo devi guadagnare”. Sarà pur stata la fame, ma non so come, d’improvviso, appena incrociai lo sguardo dell’Addestratore, il mio cervello si diede una bella raffreddata, e d’incanto le mie anche si appoggiarono tranquillamente a terra, e le mie orecchie si portarono leggermente all’indietro in atteggiamento pacificamente remissivo: quella era la chiave per guadagnare da mangiare, specialmente con quell’essere umano lì. Ed ecco appunto che la mano dell’Addestratore si aperse con enfasi sotto il mio muso, ed io potei mangiare con calma, manciata dopo manciata, stabilendo il mio primo profondo contatto con l’Addestratore, la mia nuova Guida. Avevo già imparato una bella lezione, non è vero?

La mattinata proseguì intensa: fu la prima volta che l’Addestratore mi portò in passeggiata al guinzaglio. Ad un tratto mi chiamò a sé, e mi infilò dalla testa una catenella tutta tintinnante: non avevo mai indossato una cosa simile, ed appena mi agganciò al guinzaglio mi opposi, avvertendo – sarò sincero – una certa pressione intorno al collo, tanto che dovetti schiarirmi un attimo la gola. Che succedeva? Non sarà mica stata una trappola? Temporaneamente disorientato, tenevo d’occhio l’Addestratore, ma lui non parlava, semplicemente procedeva avanti, invitandomi a seguirlo con passo tranquillo, dando dei ritmici e sonori colpetti al collare. Pochi secondi dopo, la pressione del nuovo collare svanì del tutto, e non mi ci volle molto per capire che non avevo nulla da temere davvero: semplicemente, dovevo seguire l’uomo, e non cercare di farmi seguire da lui, come avevo sempre creduto di dover fare. Strano, eh? Sta di fatto che la mimica del mio corpo cambiò, mentre seguivo con sempre maggior prontezza l’Addestratore. Nel giro di una decina di minuti, qualcosa ancora scattò nella mia testa: stavo imparando a collaborare con l’uomo. L’Addestratore si accorse presto dei miei primi progressi, tanto che, per la restante parte della lezione, non fu che questione di lodi, gioco e carezze.

Conclusi la mia giornata stanco, ma felice, anzi felice in una maniera diversa da tutte le altre della mia vita: felice perché sapevo, in un modo o nell’altro, che stavo per trovare il mio posto e il mio scopo nel mondo, che stavo per diventare anche più di un semplice Cane. Stavo per diventare un Cane Utile, un vero amico e ausiliario dell’uomo. E così, il mio allenamento andò avanti per almeno un paio di mesi, di certo impegnativi, ma davvero significativi.

Arrivò una fase nella quale avevo assunto un tale controllo delle mie azioni, che era come se avessi un guinzaglio invisibile che mi teneva unito al mio compagno Addestratore, che ormai sapevo scortare con sicurezza anche accanto ad una stranissima seggiola su ruote, mentre lui si attaccava ad un’altrettanto strana imbragatura che cingeva il mio dorso: se solo fosse andata così anche insieme al mio amato Padrone!

Capitolo 7

Proprio durante i miei due mesi di addestramento, anche il mio Padrone si stava allenando duramente: riabilitazione, esercizio, fatica, per riprendere coscienza del proprio corpo, drasticamente cambiato dopo un complicato intervento agli arti inferiori, e la consapevolezza di aver perso definitivamente l’uso delle gambe, nonostante il decisivo alleviamento dei dolori.

Così, anche se separati e per lo più ignari delle nostre rispettive condizioni, io e il mio umano siamo rimasti vicini in quel particolare periodo delle nostre vite: il mio Padrone doveva imparare a muoversi sul suo nuovo, speciale mezzo di locomozione detto sedia a rotelle, e io dovevo imparare a conoscere la nuova forma che avrebbe assunto il mio umano preferito, e acquisire nuove competenze, affinché potessimo continuare ad essere gli amici speciali che siamo sempre stati, fin dal primo giorno in cui ci siamo conosciuti.

Non so tuttora spiegarmi come facemmo entrambi a mantenere la costante convinzione che ci saremmo ricongiunti un giorno, ma quel giorno, io avvertivo davvero che stava per succedere qualcosa di straordinario.

Di buon mattino, l’Addestratore aprì il cancello del mio recinto, fischiettando con aria soddisfatta dopo che mi ebbe legato al guinzaglio: nonostante non avessi – ahimé – fatto ancora colazione, io ignorai addirittura la fame, e lo seguii fiducioso come al solito, restando tranquillo anche nella sala di toelettatura, in cui lui mi diede una lavata così accurata, che sembrava dovesse presentarmi per una pubblicità di shampoo per cani.

Finalmente, poi, mentre la mia pelliccia finiva di asciugare, mi diede il mio meritato pasto, ma a dire il vero eravamo troppo eccitati, chissà per quale motivo, perché ci soffermassimo in particolare su questa fase – invero cruciale, in termini di sopravvivenza canina – e dunque presto lui mi vestì della mia imbragatura da lavoro. Ci dirigemmo insieme sul suo furgone, sul retro del quale io saltai senza esitazione, nonostante il condizionamento mi suggerisse che quella era l’ora dell’allenamento in campo, e non delle trasferte: evidentemente, questo nostro viaggio doveva avere una meta davvero speciale.

Infine arrivammo alla tanto attesa destinazione: un grande piazzale circondato da aiuole, sul quale guardava un enorme edificio punteggiato di finestrelle, dal cui ingresso uscivano ed entravano tante persone, alcune accompagnate da altre, altre che si reggevano su delle grucce in tutto simili a quelle del mio Padrone, altre ancora che si spostavano su sedie a rotelle come quella con cui ero ormai abituato ad accompagnare il mio Addestratore.

Annusai intensamente l’aria, guardandomi intorno incuriosito: fatta la conta delle persone con le grucce, e già che c’ero anche di quelle in sedia a rotelle, non feci in tempo ad accucciarmi – quasi rassegnato – che le mie narici furono inebriate di un odore famigliare. Di scatto mi alzai, impettito e scodinzolante, mirando la gente che andava e veniva: fui un po’ sorpreso quando vidi la sedia a rotelle e non più le grucce a cui ero tanto abituato, ma nonostante ciò, il mio cuore ebbe un sussulto nel riconoscere già da lontano il mio amato Padrone!

Lui non mi vide subito, tutto preso com’era a calibrare i comandi delle sue nuovissime zampe rotanti, ma… appena si accorse di me, mi sfrecciò incontro, chiamandomi per nome. Non vi dico l’emozione nel sentire di nuovo la sua voce: come avevo imparato a fare, non mi feci intimorire dalla sedia a rotelle e, tenendo a stento a freno il mio entusiasmo, non esitai a saltare, pur cautamente, sulle sue gambe, e a coprire il suo viso di leccate, mentre lui rideva finalmente soddisfatto, e mi scompigliava il pelo, e abbracciava quasi commosso.

Finito il meraviglioso rituale di ricongiungimento, io mi accucciai a guardare di nuovo i miei umani, con sguardo docile e volenteroso, in attesa delle nostre prossime mosse.

Mentre io attendevo, gli umani parlavano tra loro, tutti felici come forse mai li avevo visti: l’Addestratore, il nostro nuovo e prezioso amico, dava loro importanti indicazioni, e loro ascoltavano con attenzione ogni suo consiglio, mai smettendo di ringraziarlo per ciò che aveva avuto modo di insegnarmi. Di lì a poco, eccoci pronti, alla volta del mondo, di nuovo l’uno accanto all’altro, io e il mio Padrone, mentre l’Addestratore, in un bel giro di ricognizione, finiva di darci le ultime fondamentali dritte. Evidentemente, il nostro percorso non si fermava qui…

Capitolo 8

Sempre insieme, in un’armonia finalmente ritrovata, e benefica per tutta la famiglia, io e il mio Padrone ci dedicavamo alle nostre consuete attività, come il riporto della pallina, o l’esibizione in numeri circensi che strabiliassero gli amici e ci tenessero sempre allenati, aspettando che ormai la stagione estiva volgesse al termine.

Un’altra avventura attendeva il mio Padrone, proprio alla fine dell’estate: l’inizio della scuola, della scuola forse più difficile di tutte, il liceo. Il primo giorno di scuola, dunque, non mancai di accompagnarlo, portando diligentemente il suo zaino in bocca, tanto per fare la mia gran figura da cane addestrato: inutile dire che feci velocemente amicizia con i nuovi compagni di classe del Padrone, e, tra una carezza e l’altra, e il suo orgoglioso entusiasmo che riempiva anche il mio cuore, tornai a casa con il Papà davvero controvoglia. Il lato positivo era che, all’ora del suono dell’ultima campanella, io potevo tornare dal mio Padrone, che regolarmente mi presentava nuovi amici e amiche, da cui spesso rimediavo anche qualche avanzo di merenda: non ci volle molto che diventassi anche il beniamino del personale della scuola, da cui presto imparai a presentarmi anche autonomamente, abbaiando di fronte al cancello all’ora esatta della campana, a seguito di qualche mia fuga clandestina dal giardino di casa (memore di un ormai lontano passato, che è comunque meglio dimenticare).

Intanto, mentre la difficoltà degli studi del mio Padrone cresceva, cresceva anche il numero dei nostri nuovi amici, con cui condividere esperienze sempre nuove, oltre al consueto allenamento fisico del mio Padrone, e al nostro addestramento, che era ormai un appuntamento settimanale: io diventavo un cane d’assistenza sempre più capace, e il mio umano del cuore imparava ad essere un cinofilo sempre più preparato.

Fu durante una delle nostre sessioni di addestramento che si ricongiunse a me un altro essere umano importante, grazie alla conoscenza che lo legava al nostro amico Addestratore. Era l’Allevatore, quel vecchio signore che, ostacolato da gravi impegni famigliari, tanto si rammaricava di aver perso di vista me e alcuni miei fratelli e sorelle, fin quando non mi incrociò, proprio al Centro di Addestramento, intento a lavorare assieme al mio Padrone.

Non ci volle molto che, grazie al suo occhio attento ed esperto sul conto della mia razza, mi riconobbe, e io riconobbi lui, il primo umano che mi fu amico. Ci salutammo, e gli presentai il mio Padrone: lui gli raccontò la mia storia, e l’Allevatore ne restò davvero ammirato, e consolato dal nostro lieto fine, tanto che si adoperò addirittura a farci riavere il mio prezioso pedigree, che da sempre il mio Padrone considerava irrimediabilmente perduto, a causa dell’ignoranza della mia prima famiglia umana. Da allora in poi, non ero solamente un cane speciale, ma diventai anche, ufficialmente, un pregiato esemplare di Flat-coated Retriever, distinguendomi col tempo in prestigiose prove per cani da riporto, il che rese me e il mio Padrone – il quale imparò così ad addestrarmi anche personalmente – ancor più fieri del nostro indissolubile legame.