“Elemènt”, le poesie in dialetto di Renato Ornaghi dalla chimica all’Arcimboldo

Il libro è in regalo qui. Renato Ornaghi, lo scienziato prestato all’arte (o viceversa) ha realizzato un nuovo lavoro: “Elemènt”, una silloge di poesie in dialetto che parte dalla tavola chimica e passa dall’Arcimboldo che tanto c’entra con Monza.
Un particolare di Elemènt di Renato Ornaghi
Un particolare di Elemènt di Renato Ornaghi Redazione online

L’idea originale è un po’ questa, affidata a una mail di una settimana fa senza particolari pretese, come nei suoi abiti: “Carissimi amiche e amici, metà anno se n’è andato e a breve arriverà pure il vuoto: ovvero le ferie, vacatio con tante ore da riempire. Più tempo per noi stessi sperabilmente a riposare, ma – come evitarlo? – anche a pensare. A un mondo e a una vita che è sempre più Zattera della Medusa, in mare senza sapere se mai un po’ di terraferma la troverà”.
E d’accordo, un panegirico, che però arriva al punto: “Vi regalo allora, per le prossime vacanze, due approdi in uno: quarantadue sonetti in lengua mader, insieme al surrealismo di Giuseppe Arcimboldo. Il sonetto è metafora della mia gente e della mia terra: solida e quadrata, tra i pochi punti di riferimento in un mondo in sempre più accelerata mutazione. E Giuseppe Arcimboldo è – senza alcun forse – il più grande pittore surrealista di tutti i tempi, artista che ha guardato la natura attraverso il volto umano, o viceversa. Magari qualcuna dei suoi antropomorfismi potrà dare a voi il senso della vita che cambia con le stagioni. Con una differenza, però: le stagioni tornano sempre uguali a ogni giro di terra intorno al sole; la vita dell’uomo invece (e purtroppo) no. E nonostante questa malinconica chiosa finale, auguro buon relax agostano a tutti!”.


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Traduzione? Renato Ornaghi, lo scienziato prestato all’arte (o viceversa) ha realizzato un nuovo lavoro:element, elementi, anzi “Elemènt”, una silloge di poesie in dialetto che parte dalla tavola chimica e passa dal più scientifico degli artisti dei secoli scorsi, il milanese Arcimboldo che tanto c’entra con Monza (il duomo conserva un suo Albero di Jesse nel transetto destro e i cartoni di alcuni arazzi).

E allora, per dirne una: Sott el pont de San Rocch, quanto passà/ D ’acqua fangosa i Domenigh de bass /Tra i duu campad, simbol de Vimercaa/ E sora quanti scior cont spuzza al nas/ A scansà comè ratt i vù cumprà/ Per fà duu pass fin a la gèsa a spass, /Indoè la fin d April de tanti ann fa/ Ghè staa on fatt che nissun sa regordass,/ Pròpri là, arent la piazza principal/ El di vintòtt de l’ann? Quarantacinch/ Gh’è Robert Farinacc cònt voltaa i spall/ Dòpo on process, a avè prima de sera/ La sentenza peggior per chì delinch:/ Fusilaa in s’cena, e lù però el se gira.
Sonetto perfetto, va detto, così pure come il resto della raccolta che passa nelle mani di tutti in digitale e che l’Opificio monzese delle pietre dure stampa in edizione limitatissima.

Si tratta di un classico dei classici ed è il secondo sonetto della raccolta: Ab ab, ab ab, cdc cdc, uno dei ritmi pià semplici della versificazione classica italiana con qualche lievi difetto veniale sull’endecasillabo a maiore e a minore, ma niente che l’orecchio non possa digerire se perdersi piuttosto tra le rime ritrovate. Il punto di partenza sono gli elementi chimici della tavola e un’idea di Arcimboldo che pencola tra arte e scienza, come a dire che un confine c’è, forse, ma è più facile di quanto non si creda passare dall’uno all’altro.

Ma come nasce “Elemènt”? Lo spiega lo stesso autore.

“Forse è davvero il passare delle stagioni e dei mesi del calendario (inteso in termini sia civili che liturgici) la cosa che meglio ci permette d’avere la chiave di lettura di quel mondo semplice, rurale e paolotto ormai quasi scomparso, di quella Brianza che solo pochi anni fa quasi folgorava in solio e che oggi invece faticosamente arranca. In quel mutare della natura lungo le stagioni l’uomo brianzolo trovava infatti la bussola per dare un senso a tutto quello che accadeva: alla vita, al lavoro, alla malattia, e magari anche alla morte.

L’homo brianzolus grazie alle stagioni disponeva cioè di una sorta di quattro elementi aristotelici, che gli permettevano di capire e muoversi al meglio nel proprio universo. Pure la lingua che un tempo egli parlava correntemente (la lengua mader, per intenderci) aveva un ruolo chiave e quasi complementare alle stagioni, gli era rassicurante nel leggere gli eventi quotidiani. Pensiamo alla lunga sequela di proverbi brianzoli legati al calendario e ai suoi Santi: quasi ogni giorno aveva il suo motto in lengua a insegnare o spiegare qualcosa. Solo per fare un esempio – visto che siamo nel periodo più caldo dell’anno – mi viene in mente il detto “a Sant’Anna, on mort ne la fontana”: si sapeva infatti che con l’afa di Luglio qualcuno nel lago di Pusiano, nel fiume Adda o anche in una banale piscina poteva lasciarci le penne nel cercarvi refrigerio. E quando ciò malauguratamente accadeva, la recita di quel proverbio faceva capire che tutto – anche il lutto – era nella logica della vita. Esattamente come recitava il biblico Qoelet: non c’è niente di nuovo sotto il sole.

La ricerca della regolarità, di una solida logica dietro ai mutamenti era alla base dei quattro elementi (aria, acqua, terra, fuoco) identificati già nella filosofia antica. E quel grande tentativo aristotelico di dare senso all’universo caotico è stato poi ripreso dalla scienza moderna: non voglio fare qui una lezione di chimica, ma credo che tutti – guardando la tavola periodica degli elementi del chimico russo Medeleeev – rimangano ammirati da quello che è stato uno dei più grandi sforzi fatti dalla mente umana per trovare una chiave logica di lettura nella realtà naturale.

E anche questo mio Elemènt assai più modestamente vuole o almeno cerca – nella regolarità costruttiva del sonetto (che tanto ricorda l’arte artigiana brianzola necessaria per la fabbricazione del mobile) e nell’uso difensivo della lengua per cercare di avere uno scudo ai mutamenti di questi anni – una chiave di lettura per la realtà che cambia. La chimica è dunque metafora moderna degli aristotelici elementi, impazziti ahimè pure nella ex-rassicurante Brianza del tutto entrata nel villaggio globale del mondo, quasi irriconoscibile rispetto a quel che era solo pochi decenni fa.

Questa furia degli elementi odierni io la ritrovo ogni volta che guardo lo splendido (ma assai inquietante) quadro La zattera della Medusa, del pittore francese Theodore Gericault. Lo potete ammirare anche voi, all’ultima pagina della mia silloge: un quadro che ben rappresenta il nuovo mondo in cui stiamo entrando e in cui è alquanto difficile navigare: vi siamo anzi sballottati, come quella zattera tra le onde. Oggi non c’è più il succedersi regolare di stagioni o una tavola chimica a dar senso a cambiamenti che avvengono quotidianamente e quasi a mitraglia. Ora si naviga a vista, perché le sicurezze sono state spazzate via: accade proprio come è stato due secoli fa ai tempi nella Francia del 1818 di Gericault, quando con la caduta dell’impero napoleonico al popolo francese erano mancate tutte le certezze e per di più iniziava il nuovo misterioso mondo della rivoluzione industriale (della quale stiamo vivendo proprio ora la coda declinante, dopo due secoli). In poche decine di anni, tra la fine dell’Settecento e l’inizio dell’Ottocento il mondo per i francesi è stato rivoltato più volte, come un calzino.

E la naufragante nave Brianza-Medusa su cui navighiamo, persa senza guida nella furia degli elementi, in sostanza ci dice proprio questo: che la Brianza di una volta è agli sgoccioli e possiamo aggrapparci al massimo a una traballante zattera, fatta di ricordi e di una lengua che peraltro sta pian piano scomparendo. Anche a noi brianzoli di certezze a tenere uniti gli elementi impazziti del mondo ne sono rimaste davvero poche: scompaiono la terra, le antiche relazioni sociali, gli usi, la vita di parrocchia; scompare pure la fabbrichetta, che per noi era quasi una seconda chiesa. E anche la nostra lengua se ne sta andando in malora, pure lei.

Non è un ragionamento luddista il mio, e men che meno di speranza per un ritorno alla Brianza di una volta. E’ una semplice presa d’atto: la tavola periodica degli elementi tradotti in lengua mader simboleggia la fine imminente di una terra. Di certo i nostri figli in questo nuovo universo in cui stiamo entrando si orienteranno, e magari ci si troveranno pure bene. Ma alla mia generazione di mezzo, nata in una Brianza agricola e che adesso già vede tramontare la fabbrica, e che ha iniziato a comunicare con la penna a sfera analogica mentre oggi balbetta alla meno peggio in lingua digitale (il tutto, in pochissimi anni) questa trasformazione risulta essere quasi scritta in arabo.

Element non è dunque, né vuole essere, la speranza di un ritorno al “buon tempo che fu”, a un mondo che è ormai – definitivamente – dietro le nostre spalle: suggerisce la lengua come medicina, come placebo per donare qualche momento di pace a neuroni storditi dal continuo martellamento dei cambiamenti, che non danno tregua. Element vuole proporre almeno l’esercizio minimo della memoria, affinché la zattera virtuale su cui ci troviamo non dico arrivi in porto, ma almeno non ci faccia affondare del tutto.