“Come sono diventato stupido” secondo #Stranoteatro

#Stranoteatro è stato al Binario 7 di Monza per “Come sono diventato stupido” diretto da Corrado Accordino.
Come sono diventato stupido diretto da Corrado Accordino - foto Franceco Falciola
Come sono diventato stupido diretto da Corrado Accordino – foto Franceco Falciola

Da un punto di vista interpretativo sembra molto facile confrontarsi con “Come sono diventato stupido”, uno spettacolo (diretto da Corrado Accordino) che non gioca a nascondino e si impegna a essere chiaro nelle sue flessioni drammaturgiche, nei suoi passaggi e nei momenti rivelazione, di certo senza impastarsi la lingua di una retorica troppo didattica ed esplicita, ma neanche nascondendo i suoi significati in doppi giochi difficili da sbucciare durante e dopo la visione.

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Eppure, allo stesso tempo, e sempre nell’ottica dell’azione spettatoriale, non è difficile accorgersi di come la sua volontà di folgorazione e distruzione dei sistemi di pensiero costituiti – componente genetica del romanzo omonimo di base – vizi questa “semplicità di approccio”, la pieghi a ragionamenti in apparenza semplici e invece tanto complessi da attecchire nel cranio anche molto dopo la fine dello spettacolo, quasi fossero i fumi di un gas nervino affamato di neuroni innocenti e spensierati o i postumi di una sbornia intellettuale selvaggia e luminescente.

Come porsi quindi di fronte a questo contro bilanciamento continuo, alla gioia scatenata di una disanima che trova i pesi e le misure giuste per raccontare verità sociali seriamente controverse attraverso il prisma della semplicità “pop”? Come rallentare e analizzare contenuti che sbocciano senza sforzo e provocazioni che morsicano le dita a forza di intuizioni di ferocia cannibale sorprendente? Come fotografare uno spettacolo che duetta fino allo sfinimento con l’universalmente considerato e il particolare, la gag quotidiana e il dubbio ancestrale, il repertorio comico e la lettura morale? E, infine, come giudicare un’equazione teatrale che, raggiungendo quello che è il vero obiettivo delle tragicommedie di taglio antropologico, riesce a giudicare senza essere giudicante, criticare senza essere ipocrita, insegnare senza essere presuntuosa?

È semplice: abbandonandosi, grazie alla chirurgica leggerezza delle modalità espressive, alla dilatata epifania di quello che è un viaggio esplorativo nelle esotiche parentesi della stupidità umana e alla forza di un racconto emozionato capace di denunciare i malfunzionamenti della quotidianità comportamentale, raccontarli con cipiglio appassionato e capovolgerli in assunti di democratico riscontro e spaventosa aderenza al reale. Abbandonandosi, sì, e poi scattando in piedi per raggiungere il soffitto degli atteggiamenti preconfezionati e farlo esplodere con le considerazioni estrapolate dall’ascolto e dall’immedesimazione in una storia che va giù come le migliori pasticche energetiche e che si impernia su considerazioni illuminanti ma limitate (gli stupidi sono felici e l’intelligenza avvelena la vita) oppure semplici ma totalizzanti (diventare stupidi è facile, basta innamorarsi): dimostrando di sapersi involare oltre l’esercizio di stile di un catalogo di personaggi grotteschi – comunque interpretati da urlo – e di raggiungere lo status di opera che prima pensa pessimismo e poi agisce ottimismo. Come fosse una lacrima saltata sul trampolino del sorriso.