“Io non sono un gabbiano” secondo #Stranoteatro

#Stranoteatro al Binario 7 per “Io non sono un gabbiano”, il premiato spettacolo della compagnia Oyes tratto dal testo di Anton Cechov.
“Io non sono un gabbiano”
“Io non sono un gabbiano”

“Io non sono un gabbiano” fa una cosa giusta: essere sbagliato. Paradosso? Controsenso? Assurdità? No, non è questo il caso. Che la filologia da teatranti ci venga in aiuto. Il testo da cui è tratto il premiato spettacolo della compagnia Oyes è “Il gabbiano” di Anton Cechov: un’opera di importanza massiva, impostata per raccontare un dramma specifico (la violenza psico-emotiva dell’apparato umano) attraverso la curva d’esperienza del suo autore (un drammaturgo espressionista che riscriveva le regole e faceva il medico).


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Farne l’agiografia non è difficile, è una spontanea tensione affettiva per una pietra angolare. Ma contraddirlo? È coraggio, un pieno atto performativo.
“Io non sono un gabbiano” – già di per sé, un titolo che fa sua la negazione assassina, il rifiuto e lo sradicamento – da Cechov prende con rispetto implicito il giusto e soprattutto gli estri al sapore d’iperuranio: la tensione sviluppata fuori scena, la posticcia prosaicità del quotidiano e in parallelo il “vedo non vedo” dei sentimenti, la chirurgia della prosa. In un’immagine l’abrasiva azione drammatica che scaraventa i corpi in un autoscontro impazzito. Interiorizza, analizza, si impegna in una comparazione applicata di forma e contenuto, significato e significante. Poi prende, tiene fermo questo animale in cattività che è il testo cecoviano – geniale sì, ma da certi punti di vista obbligato a una rilettura per finire nell’angolo del fuori tempo massimo – e lo sventra per bene.

Lo spettacolo parla alla carcassa del suo ispiratore e lo fa con la voce di un adolescente che ha tradito il padre: arrogante per coprire la paura del fallimento, magnifica com’è magnifico e malvagio ogni atto anarchico, libero e dannato. Cambia il paradigma del testo di partenza: l’arte non è più il centro ma è una delle tante sponde su cui far saltare il tema dell’amore, che qui è ombelico del racconto, centro di propulsione e zenit cristallino; cambia la domanda d’interesse esistenziale (da “la vita va avanti senza arte?” a “la vita va avanti senza amore?”) e cambia modo di approcciarsi al dolore per l’assenza di risposte: allucinato, fuori asse e più volte indeciso se non farsi prendere troppo sul serio o se farsi prendere mortalmente sul serio. Le risalite di tono spiazzano un pubblico minacciato da scosse elettrostatiche lanciate da un palco massacrato da messaggi e contro messaggi, battute e involuzioni tragiche, salti mortali che raccontano la vita e salti vitali che gridano in faccia alla morte.

Lo spettacolo, condotto da un coro affiatato che tiene le mani in tasca, viviseziona così la storia di Konstantin, artista sofferente ma anche amante sofferto, per estrapolare una nuova disperata equazione a tratti formidabile ma anche piena di scompensi, squilibri, difetti, che, sconvolgendoci sotto pelle, istruisce a un sentimento (l’amore) letto e recitato come l’urgente domanda di un vivere senza risposta. La stessa domanda che mira dritto al cuore della persona, spacca il torace e invade. Con fame pandemica, con sinuosa virulenza, come fa la verità. Un paradosso, un controsenso, un’assurdità.

Io non sono un gabbiano

Regia di Stefano Cordella
Produzione: Compagnia Oyes