Da Monza al lager di Ravensbrück a 16 anni: Santina che non tornò mai davvero

Quando è stata deportata in Germania per finire nel lager di Ravensbrück Santina Pezzotta aveva 16 anni. Poi una mattina ricomparve a San Fruttuoso. Ma non tornò mai davvero dall’orrore.
Deportate a Ravensbrück
Deportate a Ravensbrück internet

Quando è tornata non è tornata davvero. Qualcosa, troppo, era rimasto là, 90 chilometri sopra Berlino, in uno del lager più disumani che la follia nazista era stata in grado di concepire: un posto per le donne, trattate come prostitute, come cavie da laboratorio, come carne da eliminare.

Ravensbrück: è lì che mandarono Santina Pezzotta quando aveva sedici anni. Con un carico ingiustificato di cinismo si potrebbe dire che le è andata bene: al suo arrivo gli orrori degli anni precedenti erano probabilmente finiti. Le donne scelte per finire nei bordelli degli altri campi di sterminio, quelle trasformate in forza lavoro per la Siemens, quelle destinate a diventare topi umani degli esercizi medici della croce uncinata probabilmente erano terminati, per lasciare il posto a una smania di esecuzione sommaria dettata dalle forze soltanto nemiche alle porte. Un colpo alla nuca e via, lungo il corridoio della morte, le camere a gas: quando le tatuano un numero sul braccio e le infilano un pigiama a strisce. Per ci sarebbe stata una via di fuga: è sopravvissuta, non si sa come.

Perché non ne avrebbe mai parlato, con una sola eccezione: un’amica di un tempo scelta per dire l’indicibile, costretta a non dire mai a persona viva cosa era successo lassù in quella manciata di mesi. Non avrebbero mai saputo nulla la sorella e i genitori, a San Fruttuoso. Eppure è lì, nella sua strada, che è stata vista tornare: «Un salumiere vicino a casa nostra l’ha vista per primo e ha urlato: quella è Santina!» avrebbe ricordato la sorella Elisa anni dopo, in un documento dell’Anpi di Brugherio. «Tutti siamo corsi giù in strada; erano le 5.30 del mattino. Aveva un bastone con legato un fagotto che faceva da ombrello. Indossava una specie di pellicciotto e una gonna fatta con una tenda; sembrava una zingara. Sul braccio aveva un numero di matricola», in testa i pidocchi, il corpo uno scheletro, coperto di cicatrici che sarebbero rimaste senza spiegazioni per i suoi cari. Era nata il 17 gennaio del 1928: se fosse viva oggi, avrebbe da poco compiuto 89 anni. Ma non è andata così.

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Quando sparì aveva sedici anni, era nata a Brugherio prima che la sua famiglia, bergamasca, si trasferisse a San Fruttuoso: era operaia specializza alla Magneti Marelli. La famiglia sì, il padre, la sorella, erano antifascisti militanti: papà Serafino era anche stato mandato al confino in Francia, era stato arrestato, avrebbe partecipato alla resistenza con la primogenita. Ma lei no: aveva sedici anni, e in un’epoca in cui si cresceva in fretta lei non aveva ancora incontrato la politica. Il 16 marzo del 1944 era a Bergamo, i fascisti la presero, la mandarono in Germania probabilmente per riempire le fila del lavoro gratuito. Finì in mano ai nazisti comunque, come deportata politica, un triangolo rosso cucito sulla giacca.Prima a Terezin, vicino a Praga, dal 27 maggio del 1944. Poi il trasferimento a Ravensbrück: sarebbe tornata a Monza un anno e poco più dopo, a settembre. Quello che vide, e subì nel frattempo, non lo sa nessuno.

Solo un’amica, avrebbe poi raccontato Elisa, che però disse ai familiari di avere promesso il segreto. «Di mia sorella ricordo che non mi diceva niente della vita trascorsa nel lager, eppure eravamo in ottimi rapporti. Solamente ad una sua amica, una compagna, raccontava tante cose. Io sono venuta a saperlo e ho cercato di parlare con questa donna, ma lei mi ha risposto che non poteva dirmi niente, perché ́aveva promesso a mia sorella che non avrebbe mai raccontato niente a nessuno di ciò che aveva detto».

Poi anni difficili, un brutto matrimonio, la morte a 44 anni, nel 1972. Era il 27 luglio, erano passati 28 anni dall’arresto, 26 dal giorno in cui era saltata addosso a una donna a Livorno, in spiaggia: aveva riconosciuto un’aguzzina dei campi.

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Non si sa cosa sia successo a Santina, si sa che cosa è stato Ravensbrück. Era stato creato nel 1938 su ordine di Himmler, il capo delle SS, destinato prima di tutto alle donne. Da lì negli anni sarebbe uscite il 70% delle ragazze destinate ai bordelli degli altri lager. Lì sarebbero state scelte le schiave per il lavoro delle fabbriche tedesche, che avrebbero aperto attività nei dintorni, come la Siemens. Dal 1942 i medici iniziarono esperimenti medici sulle detenute simulando a forza ferite di guerra (chiodi arrugginiti, schegge di legno) e malattie (infezioni di gangrena gassosa) per capire come curarle: Herta Oberheuser, l’unica donna nazista processata a Norimberga, lavorava lì.

In un campo femminile non potevano che esserci bambini: vennero fatti abortire dalle madri o uccisi neonati. Una stima approssimativa dice che siano morte a Ravensbruck circa 92mila donne.

Quando Santina è arrivata nel lager era già arrivata la fine, ma lei non poteva saperlo: Himmler negli ultimi mesi del 1944, quando probabilmente è stata trasferita la monzese, aveva già ordinato di liquidare il lager, che significava uccidere tutti. Le donne venivano fatte passare a gruppi di almeno cinquanta dal corridoio della morte e fucilate alla nuca, all’inizio. Se il colpo non bastava, un medico iniettava veleno nel cuore. All’esordio del 1945 non bastava più: i nazisti decisero di aggiungere camere a gas e forni crematori.

Come Santina sia scampata a tutto questo non si saprà mai: ma l’ha visto. Lo raccontò a una sola persona, che mantenne la promessa di non dirlo a nessuno. Non bastarono altri trent’anni a salvarla: perché Santina, davvero, dal lager non tornò mai.