Così nasce un assassino (a Milano): il primo giallo di Alessandra Selmi

Si intitola “La terza (e ultima) vita di Aiace Pardon” ed è il primo giallo della scrittrice monzese Alessandra Selmi. Che racconta come nasce un assassino. E come le indagini le possano fare un tamarro (poliziotto) e una barbona (coltissima). Incontro con l’autrice martedì 5 maggio da Libri e libri a Monza.
La stazione centrale di Milano
La stazione centrale di Milano

Inciampo, incidente, casualità, destino. Ognuno può scegliere la sua versione dei fatti, come in un Rashomon qualsiasi in cui tutte le verità sono altrettanto vere e tutte, allo stesso modo, false quanto basta. Sta di fatto che quel giorno alla stazione di Roma sulla banchina è passata una senza tetto col suo carico di cianfrusaglie e rassegnazione. E allo stesso tempo lei avesse in mano un Maigret di Simenon. Folgorazione la prima, sensibilità letteraria il secondo. Poi lei ci aggiunge quel po’ (tanto) di ironia tutta sua e qualche chilo di letture che passano da Fred Vargas, Scerbanenco, Hans Tuzzi, Manchette e l’universo di un genere letterario così claustrofobico da risultare infinito.

Eccola: Alessandra Selmi, monzese, che questo libro l’aveva in mano da tanto tempo e poi si è fatta un bel giro di valzer di notorietà lo scorso anno grazie all’anatomia semiseria del mondo dei libri “E così vuoi lavorare nell’editoria. I dolori di una giovane editor” (2014, Editrice Bibliografica). Il prima che è diventato un dopo è “La terza (e ultima vita) di Aiace Pardon” (Baldini&Castoldi): un giallo nella “bottiglia d’orzata dove galleggia Milano” (De Andrè) fatto soprattutto di autunno e di inverno, freddi e rapidamente bui anche quando scorrono sotto le luci e i pastelli delle insegne di Ladurée.

L’autrice dà appuntamento ai suoi lettori alle 18 di martedì 5 maggio alla libreria Libri e libri di via Italia
a Monza per parlare del suo romanzo, di come è nato, dei suoi stropicciati protagonisti e di come sia possibile riscrivere – almeno in parte – le regole del giallo senza darlo troppo a vedere.

Il canone classico lo rispetta nella struttura: niente sorprese, la storia scorre ininterrottamente dalla prima all’ultima pagina senza sbalzi, incastri, riflussi né congestioni. Il canone va in pezzi sui protagonisti: addio ai commissari – tanto più quelli di mezza età, il bicchiere facile, meglio se con una vita privata complicata, un qualche latente disturbo della personalità. Le indagini le porta avanti senza alcuna autorizzazione Alex Lotoro (Alex, all’anagrafe, non Alessandro), vice sovrintendente con forse nessuna speranza di passare di grado – semmai la possibilità di farsi cacciare dalla polizia. Con il rutto libero nella fondina, i modi spicci, i pugni da pestare da qualche parte se occorre e sì, chiaramente, un po’ tamarro. Fosse solo per la Chevrolet fluo che si è comprato.

Ma non è solo: con lui una barbona (clochard, sottolineerebbe l’interessata), un po’ troppo saputa e colta per non dare nell’occhio nonostante l’odore, la testa calva e i denti andati. Una vecchia “che si è mangiata un dizionario” che si presenta in commissariato per dire che il suo amico Aiace Pardon è morto. Assassinato. Dall’uomo con le scarpe lucide. Il corpo? Non c’è. E allora niente indagini, le dicono.

Nessuno le crede tranne Alex. E avrà ragione a non farlo. Perché in fondo al libro, dopo porta Venezia, il Giambellino, piazza Duca d’Aosta e decine di altri angoli di una città che “corre sempre e lo sanno bene i non milanese”, un assassino si trova. Importa? Importa. Ma importa soprattutto un fatto, del romanzo di Alessandra Selmi: che se una lezione da Simenon l’ha imparata (quello stesso Simenon con cui per fatalità, caso, incidente, inciampo, incidente si ritrova a condividere i dorsi sugli scaffali delle librerie), quella lezione è nel senso di un giallo. Dove in fondo non conta chi l’ha fatto, perché, come. O meglio: sono i dettagli indispensabili per raccontare come un uomo può arrivare a uccidere, quali sono le ragioni che lo spostano quell’invisibile centimetro più in là, dove l’omicidio – anche solo per un istante – è accettabile. “La terza (e ultima) vita di Aiace Pardon” racconta questo: come le traiettorie di un’esistenza possano portare improvvisamente al confine sbagliato. Che spesso è caso, fatalità, inciampo, incidente, destino.

Alessandra Selmi racconta tutto in discesa e di corsa, in cinquantasei capitoli rapidi, come le due pagine con cui il romanzo inizia e che in poche righe trasformano la velenosa barbona nell’indispensabile compagna di viaggio del lettore lungo Milano e attraverso il romanzo.

Pochi personaggi, qualche donna poco accomodante, un senza tetto latinista, qualche collega di commissariato bene o male disposto a dare una mano alle stranezze del vice sovrintendente. E poi sì: almeno uno di mezza età col bicchiere facile quanto le sua urla c’è. Ma non è un commissario. È il questore di Milano, che come Maigret tiene la sua brava bottiglia ad alta gradazione nell’armadio per condividerla di tanto in tanto alla scrivania. Ma solo di tanto in tanto: di solito beve da sé, una buona torba per tagliare in due la mattinata.

Alessandra Selmi
La terza (e ultima) vita di Aiace Pardon

Baldini&Castoldi
2015, Milano
240 pagine, 16 euro