Politica: Vittorino Colombo, il ricordo di un profeta dimenticato

Nel 1996 si spense a Milano Vittorino Colombo di Albiate, l’uomo politico più importante della storia della Brianza del dopoguerra. Il ricordo del giornalista Luigi Losa, già direttore del Cittadino.
Vittorino Colombo
Vittorino Colombo, al centro, attorniato da amici e collaboratori

Il rimpianto e il rimorso. Ecco cosa provo nel constatare come il ventennale della scomparsa di Vittorino Colombo, lo scorso mercoledì 1 giugno, sia scivolato via quasi nel silenzio e nella dimenticanza, più che, oso ancora sperarlo, nell’indifferenza e/o nell’insignificanza.

Certo, la prossimità con la festa del 2 giugno, quest’anno quanto mai significativa per il 70° anniversario del referendum tra monarchia e repubblica (con il ritorno al voto dopo il regime fascista e la prima volta delle donne alle urne), hanno fatto passare in secondo piano il ricordo di quello che rimane l’uomo politico più importante della storia della Brianza del dopoguerra e in parte dell’intero Novecento. E non soltanto per gli incarichi istituzionali e di governo ricoperti, pur rilevanti.

Una vita per lo Stato
Era stato così anche nel 1996 quando Vittorino si spense in una clinica milanese alla vigilia del 50° del 2 giugno, ma i funerali di Stato in Sant’Ambrogio a Milano, celebrati dal cardinale Carlo Maria Martini, alla presenza del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfato e con l’orazione del presidente del Senato Nicola Mancino, avevano restituito il senso e la portata della figura di quell’uomo che, da cristiano, aveva speso la sua intera esistenza al servizio del suo Paese. Il rimpianto più acuto viene però e soprattutto dalla sua prematura assenza dalla scena politica locale, nazionale ed internazionale: in altre parole se n’è andato troppo presto e con la sofferenza, ancorché fisica, della dissoluzione ormai conclamata del partito, la Democrazia Cristiana, di cui non solo era stato alfiere e dirigente di primo piano, ma che costituiva e rappresentava la sintesi dei valori di una politica anzitutto al servizio dell’uomo, la ragione prima e ultima del suo impegno.

Già allora la politica italiana era entrata in una fase magmatica, incerta e confusa, con passaggi istituzionalmente ambigui e precari dalla prima alla seconda e, forse, a una terza Repubblica. Una situazione che alla lunga non poteva che scaricarsi e ripercuotersi dal centro alla periferia, dal piano nazionale a quello territoriale.

E la troppo breve stagione della provincia di Monza e Brianza, di cui proprio Vittorino Colombo, con il Cittadino di Monza, aveva fatto scattare la scintilla nel 1978, ne è stata e ne è la riprova. Un territorio, il suo territorio, la sua “piccola patria”, a partire dalla natia Albiate, forte, solido, permeato di cultura per molti versi “calvinista”, in realtà generata da un radicamento profondo di religiosità e laboriosità, che ha finito per essere attratto nelle orbite della “società liquida” così come della “globalizzazione”, a tratti vere e proprie ordalie capaci di scuotere fin dalle fondamenta anche una roccaforte emblematica e un modello di sviluppo di livello europeo, quale era, è (?) la Brianza.

Ma Vittorino Colombo era uomo che sapeva leggere in profondità e quasi profeticamente i segni dei tempi a motivo di una capacità di discernimento che gli veniva da una intima, profonda e personale spiritualità. Voglio solo ricordare quanto ebbe a scrivere sulla prima pagina di questo giornale nel 1959 in occasione della festa del Primo Maggio: l’allora giovane neodeputato parlava di dignità del lavoro, di diritto al lavoro, di sicurezza nel lavoro, di contratti a termine per i giovani e di lavoratori di 40-45 anni espulsi dai cicli produttivi perché sostituiti dalla tecnologia.

La sua grandezza e intelligenza politica risiedevano nella fiducia e nella speranza che pure sapeva trasmettere perché il suo era sempre un orizzonte, una prospettiva migliore, positiva; non un ottimismo di maniera, ma la fondata certezza che il lavoro, l’impegno avrebbero portato al cambiamento. Tutto ciò a motivo della sua totale adesione al pensiero di Jacques Maritain e al suo “umanesimo integrale”.

L’anticipatore
Con questo suo stile si era approcciato ai temi della sanità come della radio-tv anticipando idee e concetti come il pluralismo che sarebbero diventati elementi fondamentali e costitutivi delle relative riforme. La liberalizzazione dell’etere a seguito di sentenze della Corte costituzionale lo avrebbe visto protagonista, come ministro delle poste e telecomunicazioni, di una vera e propria rivoluzione i cui effetti e potenzialità si stanno ancora dispiegando e realizzando oggi.

A proposito di pluralismo amava citare la politica dei “cento fiori” di Mao Tse Tung, il leader di quella Cina, paradossalmente comunista nella sua forma più ortodossa, con la quale, nel 1968 da ministro del commercio estero, fu uno dei primi uomini politici occidentali ad avviare rapporti sempre più stabili non solo con l’Italia e l’Europa, ma con lo stesso Vaticano con l’assenso dei papi Paolo VI e Giovanni Paolo II. Un rapporto che ha generato enti come la Fondazione Italia-Cina, la camera di commercio italo-cinese, l’istituto italo-cinese attivi ancora oggi. Ed è proprio questa sua dimensione politica globale che in definitiva non è stata mai e sin qui compresa sino in fondo.

Il passaggio dal rimpianto al rimorso risiede proprio nella amara constatazione del mancato riconoscimento della figura di Vittorino Colombo come autentico statista. E ciò sia a livello nazionale ed internazionale ma anche locale.

La presidenza al Senato
La vicenda della sua presidenza del Senato è in proposito illuminante. A seguito dell’improvvisa morte del presidente del Senato Tommaso Morlino, il 12 maggio del 1983 Vittorino Colombo, che ne era il vice, viene eletto alla seconda carica dello Stato.

Guida l’assemblea di Palazzo Madama sino all’11 luglio di quello stesso anno quando, a seguito delle elezioni politiche nel frattempo intervenute, gli viene preferito Francesco Cossiga che nel 1985 diventerà poi presidente della Repubblica.

Agli occhi di più di un osservatore politico e non solo, quella scelta fu determinata dalle tragiche vicende che avevano visto coinvolto Cossiga, dal rapimento e uccisione di Aldo Moro nel 1978 quando si dimise da ministro degli interni, al caso Donat Cattin (la fuga di notizie sul figlio terrorista del ministro e leader della corrente di Forze Nuove, la stessa di Vittorino Colombo, Carlo Donat Cattin) quand’era presidente del consiglio, nel 1980, prima che venisse sostituito da Arnaldo Forlani.

La nomina di Cossiga alla presidenza del Senato che gli avrebbe spianato la strada del Quirinale venne letta come una sorta di “riparazione” da parte della Dc (e del Pci di Berlinguer, suo cugino) per i difficili momenti da lui attraversati.

Vittorino Colombo accettò in ogni caso la sua decisione riconfermando quanto aveva detto al momento della nomina: «Essere considerato un vero servitore dello Stato è la definizione più nobile per un uomo impegnato in politica». A vent’anni dalla sua scomparsa meritava e merita ben altro ricordo.

Per la cronaca una messa è stata celebrata mercoledì nella cappella di San Sigismondo, esterna alla basilica di S. Ambrogio a Milano mentre un altro rito di suffragio è in programma venerdì 10 giugno alle 18 nel santuario di San Fermo ad Albiate presieduto da mons. Franco Agnesi, vescovo ausiliare di Milano. Per il resto si vedrà.