Monza piange Vittorio Bellini, ex deportato e uomo di cultura

Tutta la città di Monza piange Vittorio Bellini, ex deportato e grande uomo di cultura. E’ morto mercoledì per l’aggravarsi di una crisi respiratoria. Aveva 97 anni, i funerali si celebreranno lunedì alle 15 nella chiesa del Carrobiolo.
Vittorio Bellini, addio a un grande monzese.
Vittorio Bellini, addio a un grande monzese.

Tutta la città di Monza piange Vittorio Bellini, ex deportato e grande uomo di cultura. E’ morto mercoledì per l’aggravarsi di una crisi respiratoria. Aveva 97 anni, i funerali si celebreranno lunedì alle 15 nella chiesa del Carrobiolo. Monzese da generazioni, figlio di un commerciante, studente in ingegneria, diventa pittore per passione. Espone alla Biennale di Venezia per due anni consecutivi, il 1946 e il 1947. Ama e lavora per la cultura della sua città che, nel 2007, gli conferisce il Giovannino d’oro.

Durante la seconda guerra mondiale era un giovane ufficiale. Fu deportato al campo di internamento per ufficiali di Wietzendorf e costretto ai lavori forzati insieme ad un gruppo di 200 persone. Insieme ad altri, fu tra i promotori, nel febbraio del 1944, di una “rivolta” all’interno del campo, rifiutando di proseguire “il programma di civilizzazione” previsto da Hitler. Tremenda la risposta degli ufficiali tedeschi che scelsero a caso 22 “rivoltosi” per condannarli al campo di concentramento. Spontaneamente in 44 (tra cui lo stesso Bellini) fecero avanti per prendere il loro posto.

Il monzese fu deportato al campo di concentramento di Unterlüss, dove rimase per 44 giorni. Come è finito nel campo di internamento. Così Bellini rispondeva al nostro giornale alcuni anni fa: «Ero in caserma a Verona, quando la città fu occupata dai tedeschi il nostro colonnello aveva detto a tutti di andare a casa. Invece con pochi altri sono rimasto per salvare il salvabile: i pacchi postali inviati ai militari dalle famiglie, i documenti e le apparecchiature d’ufficio. In quei giorni ho anche imparato a fare il sabotatore tagliando le gomme ai nostri mezzi in modo da non lasciare nulla di utilizzabile ai tedeschi. Facevo dentro e fuori dalla caserma fino a che mi hanno bloccato e portato a Wietzendorf».

Cosa l’ha spinto a restare in caserma nonostante sapesse che poteva essere così rischioso? «E’ stata l’indignazione. Credo che il coraggio venga fuori dall’indignazione. E’ stata l’indignazione a sostenermi negli ultimi giorni di prigionia». Ha dato prova di coraggio anche quando si è offerto volontario per il campo di concentramento. «Sì, quello è stato un colpo d’ali di tutto il gruppo. Eravamo indignati per il modo in cui ci trattavano, dovevano trattarci come prigionieri di guerra, ma non l’hanno mai fatto».

Cosa ricorda del campo di concentramento? «Una grande povertà. Non c’era cibo, ci costringevano a lunghe marce al freddo con venti gradi sottozero. Il freddo ne ha uccisi tanti. Ci opprimevano perché firmassimo per la Rsi». Quando ha capito che sarebbe tornato libero? «Quando abbiamo iniziato a sentire le cannonate degli alleati. I tedeschi avevano il fiato sul collo, dovevano scappare e non potevano permettersi di portarsi dietro più di quaranta ufficiali italiani. Così ci hanno detto di andare e cantare». Cosa avete cantato? «Il “va’ pensiero” di Verdi. Sono convinto che peggio di noi non l’abbia mai cantato nessuno, ma mai nessuno con un senso di orgoglio così grande».