«Io, inviato a Stava per fotografare il disastro, riuscii a piangere dopo 20 giorni»

Luca Rossetti, padernese, ricorda oggi quei giorni. Non può dimenticare lo strazio dei parenti per il riconoscimento di chi perse la vita sotto il fango. Non è più riuscito a ritornare in quei luoghi.
Una sua foto documenta il difficile recupero delle vittime
Una sua foto documenta il difficile recupero delle vittime

Un incontro, l’ennesimo in pochi giorni. «Finalmente l’ho trovata». Dall’altra parte un sospiro, quasi di sollievo. «Ha visto, è andata bene». In realtà non era andata bene. In quel «finalmente l’ho trovata» c’era la fine di giorni sospesi, di una speranza ancora viva seppur remota, di continui pellegrinaggi tra i luoghi simbolo di una tragedia, dalla chiesa di Cavalese, al municipio, al fronte della frana, alla ricerca della figlia, in vacanza con i nonni, i cui cadaveri erano già stati ritrovati. A ricordare quel frammento di dialogo è Luca Rossetti, giornalista ed esperto di comunicazione, padernese, che arrivò sul luogo della catastrofe poche ore dopo che un muro di fango, terra e liquami aveva spazzato via tutto.

«Lei era una docente di Milano- ricorda- e ci eravamo visti spesso in quei giorni. Era alla ricerca della sua bambina e quando mi rivide, in quell’occasione, in realtà, con quelle poche parole mi fece sapere che ne aveva riconosciuto la salma». L’illusione di ritrovare i dispersi ancora in vita era ormai tramontata: troppa la furia distruttiva per lasciare spazio anche solo ad un fondo di fiducia. La partenza di Luca Rossetti era stata repentina, la stessa mattina di quel 19 luglio di trent’anni fa, quando lui, allora fotografo venticinquenne della redazione de Il Sabato, era stato inviato in tutta fretta sul posto, quando ancora i contorni della tragedia erano solo supposizioni. Giusto il tempo di noleggiare una Fiat 131 e fare una telefonata a casa per avvisare della partenza. «Quando sono arrivato- si ritorna al 1985- nel primo pomeriggio, non ho trovato i posti di blocco: la macchina dei soccorsi si stava mettendo in moto. L’impressione è stata quella di una violenza inaudita, non c’è altro modo di descriverla. Si vede anche dalle fotografie».

In quel momento si scava con gli strumenti che si hanno a disposizione in una località di montagna: pale e poco più. Poi arriveranno elicotteri ruspe e uomini. «I primi giorni ogni tanto si sentiva un urlo: quello significava che i soccorritori avevano trovato un cadavere. Mi ricordo anche la scena di un vigile del fuoco che parla con un anziano del posto tentando di ricostruire dove erano collocati gli edifici. Ma dove veniva indicato, non c’era più nulla».

E poi è arrivata la ripetitività: il primo trasporto di una salma con l’elicottero che lascia a bocca aperta, e poi gli altri, che arrivano a cascata, così come il ritrovamento delle vittime sotto il fango. «Quando si capì che non c’era più possibilità di trovare qualcuno in vita- ricorda ancora Rossetti- i parenti si spostarono dalla frana alla chiesa di Cavalese, dove era stata allestita una sorta di camera mortuaria per i riconoscimenti, man mano che i dispersi venivano estratti. In quel contesto ho preso parte a frammenti della sofferenza di tante persone, non c’era un dolore corale. Lì ho capito che siamo in grado di affrontare anche il dolore più immenso, ma i familiari avevano bisogno di trovare un riscontro e dargli un nome. Dalla Val di Stava dobbiamo imparare la pietà, intesa nel senso della pietas latina, ma anche che se non si rispetta l’ambiente, il conto, poi sarà salatissimo».

Il pianto è arrivato dopo 20 giorni, quando ritrovò in garage gli stivali pieni di fango usati in quei giorni. Ma dopo trent’anni, Luca Rossetti non è ancora riuscito a tornare in quei luoghi.